Sono ormai anni che Confartigianato suona il campanello d’allarme sul futuro della finanza Europea, salvaguardata solo dalle azioni coraggiose del governatore Mario Draghi, nonostante le critiche provengano dall’interno di Eurozona.
Le principali banche europee (tra cui HSBC, BNP Parisbas, Societé Génerale, Credit Suisse e UBS) stanno presentando i loro risultati per il 2015. Presidenti, amministratori delegati e direttori generali diranno che, nonostante le acque procellose ed il cattivo tempo, sono riusciti, con sforzi eroici, ad aumentare gli utili. Un rapporto dell’Economist Intelligence Unit riferisce che, sulla base dei risultati nel 2015, gli utili netti per l’anno in corso dovrebbero segnare un aumento del 30% rispetto all’anno scorso. È naturalmente una previsione che riguarda, soprattutto, i prossimi mesi, ossia il futuro.
Oscar Wilde amava dire che le stime sono difficili solamente se riguardano l’avvenire.
Sulla base di queste previsioni si parla di incrementi degli emolumenti dei bravissimi banchieri europei.
Il rovescio della medaglia è che il 2015 per le banche europee è stato, sotto molti aspetti, un anno da dimenticare. Mediamente il valore azionario della banche del continente vecchio ha subito una contrazione del 28%, mentre quella sofferta dalle loro consorelle americane (esattamente nelle stesse acque procellose) è stata del 7%. Le banche europee si sono mosse lentamente e soprattutto tardivamente nei confronti dei loro crediti inesigibili o quasi; sono state e sono maggiormente esposte ai mercati emergenti e sono alle prese con tassi d’interesse negativi.
Il Roe (il rendimento sul capitale investito) è stato appena del 7%. Il problema centrale è che anni di stagnazione economica (a cui secondo alcuni non sono del tutto senza responsabilità la politiche d’integrazione europea) hanno reso relativamente piccole anche le maggiori banche europee. JPMorganChase ha una capitalizzazione pari a quattro volte quella della più grande banca francese, BNP Paribas. La Wells Fargo vale tre volte la maggiore banca dell’eurozona, il Santander.
Questi dati suggeriscono non solo che non è il tempo di darsi troppe pacche sulle spalle a vicenda, ma di completare l’unione bancaria e l’unione dei mercati dei capitali – strumenti necessari per rafforzare le banche europee in un contesto globalizzato. Indicano soprattutto che nel prossimo futuro numerose banche dell’Europa continentale potranno diventare prede appetibili di istituti finanziari americani.
È utile ricordare che già adesso il 38% delle esportazioni americane in servizi finanziari (escludendo le assicurazioni) è alla volta dell’Unione Europea (UE). Di converso, il 50% circa delle importazioni americane in servizi finanziari (includendo, però, le assicurazioni) viene dall’UE. In materia di servizi finanziari – è noto – USA e UE hanno regole molto differenti, specialmente per ciò che attiene alla contabilità, agli accantonamenti prudenziali ed alla vigilanza.
Inoltre, mentre le famiglie europee sono contraddistinte da un tasso di risparmio elevato (con l’eccezione di quelle di Romania e Bulgaria), quelle americane hanno un tasso di risparmio appena pari al 5% del reddito disponibile. Di converso, la redditività degli investimenti è più elevata negli USA (un ROE attorno al 9%) che nell’UE (circa il 6%). Quindi, non mancano gli appetiti di acquisire banche europee per incamerare risparmio da investire negli Stati Uniti. Nessuno, però, ne parla.
Stefano Signori
Presidente di Confartigianato Imprese di Viterbo