In attesa dell’eccitazione, accontentiamoci della citazione. Da Fracchia, il mitologico geometra sfigato creato da quel genio di Villaggio Paolo, a San Paolo, passando per Gian Pieretti, altrettanto sfigata versione italiana di Bob Dylan, e Gustavo Zagrebelski, che ad un certo punto Maurizio Tofani ammette candidamente di non aver mai sentito nominare. Male, molto male, se si ha la presunzione di fare il capogruppo, e un domani (magari più vicino di quanto sembri) persino l’assessore all’Urbanistica. Da architetto.
E’ stato un consiglio comunale davvero straordinario, quello che ha discusso – e alla fine bocciato, solo 11 voti a favore, 18 contrari – la mozione di sfiducia nei confronti del sindaco Michelini. Per una volta, il parlamentino di Palazzo dei priori, ha rispettato l’attesa: straordinario nella convocazione, straordinario nel suo svolgimento. Intanto la partenza: puntuale come un treno delle ferrovie svizzere, qualche minuto di ritardo soltanto fisiologico, niente a che vedere con gli orari moooolto flessibili dei consigli ordinari. E poi: sentito, vissuto, argomentato, coi consiglieri che avevano paura persino di alzarsi per andare a pisciare. Un’ubbidienza, una efficienza, una deferenza, che in un colpo solo hanno cancellato due anni e mezzo di deficienza (si legga nell’accezione latina del termine).
Ma del resto. Ieri è il giorno del giudizio. Si doveva approvare o bocciare l’operato dell’amministrazione di Michelini (perché alla fine il sindaco era soltanto l’imputato nominale di colpe condivise) dal giugno 2013 ad oggi. E se da una parte la maggioranza ha risposto compatta, coperta e allineata come mai s’era vista finora, la minoranza doveva cercare di convincere qualcuno dell’altera pars ad aderire alla mozione. O, visto che la missione era impossibile già per definizione, doveva comunque fare bella figura davanti ai 23 (ventitré: che al lotto hanno un corrispettivo molto colorito per indicare un colpo di fortuna) spettatori non paganti in aula, e ai migliaia – anzi ai milioni – che seguivano i lavori dell’assemblea in diretta streaming.
Si è risolto col solito copione. Questi di qua a pavoneggiarsi (pav, pav) e a dire che non possono neanche andarsi a prendere un caffè al bar perché una folla disumana li circonda e li implora (imp, imp) di “mandare a casa Michelini”. Pare vederla, la scena, di un Santucci o di un Buzzi asserragliati a piazza Crispi in attesa che la forza pubblica li salvi dall’accerchiamento e dall’affetto della gente. Quelli di là, invece, si sono prodotti in una serie di salamelecchi nei confronti di Michelini che, in fondo, assorbendo i colpi, para i sederini di tutti. E tutti parlano, da Augusta Boco, che di solito si esibisce su temi grottani (Grotte Santo Stefano) e che stavolta ricorda di quando conobbe Leonardo “perché mi rifece il giardino di casa”. Uau. E Bizzarri, che provoca divertita la minoranza, ricordando quando essa non partecipò alla discussione sul bilancio “evidentemente perché non c’era niente da spartire”. Si sfiora la rivolta. E ancora: Moricoli, Simoni, Serra, un Fabbrini quasi commosso, con un discorso dai toni signorili, d’altri tempi. Frasi memorabili? Lo show di Insogna, che prima di attaccarsi per l’ennesima volta con Barelli (rissa sfiorata), regala un’esibizione mefistofelica – il look lo aiuta – indicando il sindaco e esorcizzandolo così: “Fioroni eeeeeesciiii da questo corpo. Fioroniiiiiii”. L’esorciciccio 2.0, insomma. E il Rossi Filippo, che sciorina la solita supercazzola. E Troili, poro ciuco: “Voterò contro. Ma ricordatevi che sono diversamente in maggioranza”. I diversi oggi vanno di moda.
Quando parla Michelini è il momento clou. Leonardo un po’ parla a braccio e un po’ legge quegli appunti che aveva scritto di suo pugno il giorno prima, lasciando al suo staff soltanto un lavoro di lima finale. “Non sono abituato a fare il capopopolo. Sono abituato a fare il sindaco di Viterbo, e cioè l’interesse della mia città e dei suoi cittadini. Senza usare le istituzioni e la politica per interessi miei, è per questo che ripeto quella frase che qualcuno mi imputa, quel ‘campo del mio’ che in realtà vuol dire solo questo”. Dice che le cose che ha fatto (Expo, il lavoro sul centro storico, sulle frazioni, sulle periferie, le prime mosse concrete sul termalismo) e quelle che farà. Rivendica di aver dato alla città una dimensione meno provinciale e più nazionale e internazionale: “Anche grazie a Renzi e Zingaretti, che ci stanno dando gli strumenti”. Assicura che le cose che non vanno cambieranno: “A partire dalla situazione della raccolta dei rifiuti. Sono appena tornato da Perugia per un vertice col prefetto: Gesenu (la società che controlla anche Viterbo Ambiente, ndr) presto sarà commissariata. Una svolta che ci permetterà di modificare anche il contratto di appalto, del quale naturalmente non siamo mai stati soddisfatti”. Ma non perde l’occasione – strano, per un tipo misurato come lui – per dare qualche colpetto all’opposizione. Tipo: “Stiamo cambiando quel sistema che abbiamo trovato. Quello degli appalti che non funzionano, delle ditte amiche o degli amici che lavorano col Comune e poi non pagano. Delle aziende come Esattorie, che soffiava i soldi pagati dai viterbesi. Delle partecipate che erano un pozzo senza fondo”. E più direttamente, più politicamente: “Sappiate che non basta attaccare me per rifarsi una verginità politica. I viterbesi non dimenticano”. Ad occhio, il miglior discorso politico, appunto, del Michelini.
Poi si vota, e va come tutto era previsto dai saggi: la mozione incassa 11 voti a favore, visto che mancavano Moltoni e Galati (una figuraccia, visto che le firme in calce erano 13), di là ne arrivano 19 a sostegno del primo cittadino. La maggioranza – incredibile a dirsi – ne esce dunque rinforzata, ma pronta, anzi prontissima, a tornare a scannarsi per le prossime nomine, i prossimi rimpasti, le prossime beghe. La minoranza ha avuto la sua passerella, il quarto d’ora di celebrità alla Andy Wharol. Quello che è rimasto fregato è colui che la mozione l’aveva pensata, scritta, e promossa tra i banchi dell’opposizione, cioè il grillino De Dominicis. Coerente fino alla fine, ma immolato sull’altare del teatrino. Una prece. E un obolo a Casaleggio.