Ieri Angelo Peruzzi ha compiuto 45 anni. Ed è facile immaginarselo a festeggiare in famiglia, davanti al caminetto, magari con un pranzo dei suoi (crostini di fegato, fettuccine, spezzatino di cinghiale, crostata) prima di andarsi a fare una passeggiata nelle campagne e nei boschi della sua Blera. Perché sì, il Grande Etrusco non ha mai avuto grilli per la testa, pur avendo girato il mondo, vinto tutto quello che c’era da vincere, fatto godere o dannare i tifosi suoi e quelli avversari.
Peruzzi, il più grande viterbese del Novecento, e non segue dibattito. Perché più di qualche politico, più di un pugno di imprenditori, meglio di cantanti e attori (ma quali?) ha esportato i valori di questa terra in giro per il mondo. Semplicità, lealtà, buonsenso, un pizzico di ironia poco sgrezzata. Quei valori che oggi sembrano in estinzione e che pure certi snob hanno sempre provato a sminuire, a sfottere. Valori, uniti soltanto alla forza di due mani mostruose e di un fisico esplosivo, quello stesso fisico che da bambino gli consentiva di primeggiare nei giochi studenteschi, lui studente della scuola media di Blera.
Poi arrivò la Roma, Trigoria, il settore giovanile sotto le cure di Roberto Negrisolo, grande talent scout del ruolo. Già, il ruolo, e parliamone, perché c’è questo mito del portiere matto, guascone e un po’ toccatello, oppure il mito del portiere santone, dello Jascin e del Zoff. Peruzzi non era nessuna delle due versioni, o forse un mix virtuoso di entrambe: serio e inappuntabile dentro il campo, amicone fuori (ma con la tendenza tutto sommato a farsi i cavoli suoi), e comunque fenomenale in certi interventi. Non altissimo (1 metro e 80), ma esplosivo ed elastico: le sue uscite basse – coraggiose, mai avventate, quasi mai fallose – hanno fatto epoca. “Il primo portiere italiano moderno”, lo definì Beppe Di Corrado (pseudonimo) su Il Foglio.
Certo, l’inizio di Peruzzi è stato anche condito dalle leggende: le trote pescate con le mani nei torrenti del Biedano, che gli avrebbero affinato i sensi e i riflessi (cazzata giornalistica), la tendenza ad ingrassare, e quell’esordio in serie A, il 13 novembre del 1987, ai bei tempi in cui anche un diciassettenne poteva assaggiare la grande platea di San Siro. Quel giorno Franco Tancredi fu stordito da un petardo lanciato dai tifosi del Milan, e dovette lasciare il campo. Entrò Angelo, e iniziò una storia fatta di tre scudetti, una coppa Uefa, una Champions (da protagonista, nella sua Roma, parando due rigori agli olandesi dell’Ajax) e una Intercontinentale con la Juventus. Più un’altra Coppa Italia e una Supercoppa con la Lazio, il finale di una carriera straordinaria nella quale non si può dimenticare anche la Coppa del Mondo di Berlino, nel 2006, quando Lippi lo chiamò come terzo portiere, per fare gruppo in uno spogliatoio a rischio esplosione mentre in Italia impazzava Calciopoli.
Oggi Peruzzi fa l’allenatore – è stato secondo dell’amico fraterno Ciro Ferrara all’Under 21 e alla Sampdoria -, ed è consigliere comunale nella sua Blera, di cui è stato anche vicesindaco. Va a caccia, cura le amicizie, si gode il riposo dopo tanti anni ruggenti. E’ passato un altro anno, d’accordo, ma non è il caso di chiamarlo “monumento”. A lui non piacerebbe, e non è consigliabile mettersi a discutere. Basta guardare le mani, quelle mani che hanno parato tutto e alzato al cielo tanti trofei.