Visto che chi la dura la vince (no, non è un vecchio slogan leghista) e visto che San Martino al Cimino è davvero dietro l’angolo, Viterbopost è tornato sul luogo del lucchetto. Vale a dire al museo dell’Abate di San Martino al Cimino, l’appendice collinare della mostra d’arta Sacro e Profano (capolavori dal Quattrocento al Settecento) che fino al 31 gennaio sono in mostra in vari luoghi della città, frazione cimina compresa. Quel museo che, appena ventiquattro ore prima (venerdì) avevamo trovato chiuso, sbarrato e impossibile da visitare visto che il parroco doveva dir messa e non c’era nessun altro che potesse aprire ad eventuali turisti o appassionati. Una modalità, questa, che per il piccolo museo dell’Abate vale per tutto l’anno ma che sicuramente avrebbe potuto essere modificata nei giorni dell’esposizione per agevolare il flusso dei visitatori e per non lasciare monco il percoso museale: il Comune, in questo senso, avrebbe sicuramente potuto fare di più, anche a livello informativo.
La seconda volta è andata bene, è valsa la pena scalare i tornanti della strada Sanmartinese sotto un’acquerugiola più novembrina che invernale e arrivare fino ai piedi della grande abbazia cistercense. La porta del museo era ancora chiusa, anche se la presenza all’esterno del totem di Sacro e Profano (che il giorno prima era chiuso dentro il portone) lasciava ben sperare. E infatti: ecco don Bonaventura che, libero da impegni liturgici, apre e ci accoglie.
Il museo dell’Abate è un unico, grande stanzone, l’antico scriptorium dove i monaci trascrivevano libri e pergamene. Due grandi camini riscaldavano l’ambiente durante l’inverno e intiepidivano anche il sovrastante dormitorio. Sugli scaffali ci sono esposti reperti storici degli abati (mitre, paramenti, persino la poltrona). Le spiegazioni di don Bonaventura sono puntuali. In fondo, ecco il gioiello che ha fatto includere San Martino tra le tappe dell’itinerario di Sacro e Profano: è il San Martino dona il mantello al povero Cristo Eucaristico, realizzato da Mattia Preti nel 1649, un’opera che si staglia dentro lo stanzone, ben illuminata e arricchita dalla spiegazione del curatore della mostra, Andrea Alessi. La si ammira da soli – perché la sala è vuota – in un’atmosfera suggestiva. Dietro, nel verso, ecco il Salvator mundi, sempre di Preti. Il dipinto, tra l’altro, è reduce dal presito a Valmontone, per una specie di gemelaggio in nome dei Pamphili.
La visita è breve, ma sorprendente. Questa appendice periferica di Sacro Profano vale davvero il viaggio, anche doppio. E di sicuro si poteva pensarla meglio logisticamente, onde evitare che qualcun altro si ritrovi dei capolavori inaccessibili da un lucchetto e da orari troppo difficili da capire.