Non c’è niente di peggio che rimuovere un preconcetto che si è radicato nella memoria e nelle convinzioni sia degli addetti ai lavori di una qualche disciplina, sia dell’opinione pubblica. Nel dibattito pluriventennale sulle riforme istituzionali godono ottima salute due preconcetti: i Comuni italiani sono troppi; obbligare quelli con meno di 5000 abitanti ad associarsi conviene, anzi è la panacea della pubblica amministrazione. Per fortuna che accanto ai preconcetti ci sono i numeri che ne possono fare giustizia o quanto meno introdurre ragionevoli dubbi in solide certezze; vediamo…
In Italia ci sono 20 Regioni, 107 Province, 8.093 Comuni
In Germania, 16 Lander, 295 distretti rurali, 12.900 enti locali
In Francia, 27 Regioni, 102 Dipartimenti, 36.699 Comuni
In Spagna, 17 Regioni, 50 Province, 8.116 Comuni
In Austria, 9 Bundeslander, 99 distretti, 2.357 Comuni
In Grecia, 13 Regioni, 7 Decentramenti, 325 Comuni
In Romania, 8 Regioni, 42 Distretti, 217 Città e 2.853 Comuni Rurali
In Danimarca, 5 Regioni e 98 Comuni
In Polonia, 16 Regioni, 379 Contee, 2.479 Comuni
In Cekia, 14 Regioni e 6.251 Comuni
In Slovacchia 8 Regioni, 79 Distretti, 2.922 Comuni
Si potrebbe proseguire anche con altri piccoli stati europei, ma lo schema dei tre livelli istituzionali, uno regionale ed uno comunale “numeroso”, con un livello intermedio è pressoché confermato in tutti. Circa i Comuni, sono quasi sempre il portato storico di aggregazioni civiche antiche ed antichissime, con insediamenti indentitari solidamente consolidatesi nel tempo. In Italia poi ci troviamo di fronte a due istituzioni millenarie: da una parte la Chiesa Cattolica, dall’altra i Comuni; veri giacimenti di memoria culturale e storica, con identità sedimentate nel tempo, ricche di arte, folclore, tipicità, eccellenze: in principio c’erano i Comuni, si usa dire nel descrivere il carattere nazionale italiano.
Chi lamenta la “numerosità” dei Comuni italiani, (abbiamo dimostrato che siamo in pieno dentro la media europea) aggiunge che 5.693 di essi hanno popolazione inferiore ai 5000 abitanti e che moltissimi, i “Comuni Polvere” sotto i 1000. La notazione è accompagnata spesso da commenti di sufficienza e talvolta di disprezzo, perché superficialmente non si comprende che utilità possa avere un Comune di 150 abitanti, ancorchè con una storia peculiare alle spalle. La superficialità è dovuta non solo all’ignoranza di cosa sia un Comune, come funzioni ed operi, ma al fatto che non si tiene conto del territorio che esso amministra; spesso grandissime vastità territoriali, montane ad esempio, fanno capo a comunità di poche centinaia di abitanti. Infatti i 5.693 Comuni con popolazione sino a 5.000 abitanti rappresentano il 70,3% dei Comuni.
Ma attenzione, governano, cioè manutengono, curano, presidiano ben 164.235 Kmq di territorio italiano, cioè il 54,5% del totale; allora questo dato non è significativo almeno quanto quello della popolazione? Certo chi vota sono i cittadini e quindi l’espressione politica democratica attiene maggiormente alle città ed ai Comuni medio grandi, ma ogniqualvolta è in causa il territorio ed i profili istituzionali, la dignità dei Comuni è paritaria e quella dei cosiddetti piccoli altrettanto. Sarebbe ora che queste considerazioni, opportunamente approfondite e suffragate da altri numeri ed analisi, sgombrassero il campo da tante approssimazioni, perché se la base di una norma, la sua ratio, è sbagliata, si provocano guasti enormi.
Per esempio si dice che bisogna ridurre i Comuni italiani, ciascuno dei quali è anche un centro di costo, attraverso le fusioni di essi e attraverso l’associazione obbligatoria delle funzioni attraverso le unioni di Comuni e le convenzioni. Si è quindi legiferato in tal senso, con scadenze perentorie e minacce di commissariamento; intanto questa imponente manovra di contenimento della spesa interessa i Comuni, comparto che cuba l’1,7% della spesa pubblica e soltanto i cosiddetti piccoli Comuni; inoltre sino alla Del Rio la forma di associazione privilegiata era quella delle unioni.
Vediamo i numeri: ad oggi ci sono 383 unioni di Comuni con aderenti 1.969 Comuni, il 24% del totale; ogni unione di media associa 5,14 Comuni. Se tutti i 5.693 Comuni interessati si associassero in unione di Comuni, avremmo 1.107 unioni, cioè il numero degli enti locali di prossimità salirebbe dagli attuali 8.093 a 9.200: roba da matti! Chi lamenta che gli enti locali sono troppi otterrà alla fine di aumentarne un migliaio.
Certo che c’è un retro pensiero non confessabile o normabile oggi che è quello di obbligare i Comuni in unione a fondersi, come prevedeva all’inizio la legge n°142/90, ma il fatto stesso che nessuno oggi si azzardi a dirlo apertamente la dice lunga sulla bontà e praticabilità di tale intento. Ma c’è di più: chi assicura che l’associazione di funzioni e servizi porti con se efficienza, efficacia e soprattutto economicità? Nessuno. Inoltre c’è un equivoco di fondo tra rappresentanza politica, propria del nuovo ente locale unione, e le modalità di gestione di funzione e servizi in associazione, fattibili tranquillamente con consorzi e convenzioni liberamente costituiti.
La gestione, che si è affermata come distinta dalla politica amministrativa con le famose Bassanini, attiene alla sfera esecutiva di dirigenti, responsabili dei servizi ed impiegati a cominciare dai segretari comunali e non alla rappresentanza politico istituzionale che addirittura coinvolge anche le minoranze consiliari, con i guasti che conseguono, come la vicenda delle Comunità Montane ha ampiamente dimostrato.
Inoltre le unioni, interessando l’obbligo soltanto i cosiddetti piccoli Comuni, disegnano un territorio a macchia di leopardo, incoerente e variabile con il variare degli umori politici delle maggioranze che si succedono, facendo crescere gli interlocutori per enti intermedi e Regioni, invece di semplificare e razionalizzare.
I numeri, bontà loro, sono come gli scogli: riemergono lucidi ed immutabili dopo ogni ondata di chiacchiere e di pessime leggi.