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Moggi: “Io so’ io. E gli altri nun so’ un c….”

Moggi in sala Anselmi

Moggi in sala Anselmi

E meno male che la storia la scrivono i vincitori. Il mondiale del 2006? Praticamente l’ha vinto lui, e se non l’avesse vinto l’Italia l’avrebbe comunque vinto lui con la Francia: “C’erano cinque juventini di qua e quattro di là”. Prandell? “Brava persona, ma come allenatore troppo succube”. Balotelli? “La colpa non è sua, anche se non mi piace, ma di chi lo ha portato in Brasile”. Abete? “Di calcio non capisce niente: come presidente federale vedo bene Andrea Agnelli”. E ancora: Calciopoli è stato un complotto nella guerra ereditaria tra la famiglia Agnelli, le schede svizzere erano per difesa e non per truccare i campionati, all’Inter devono stare zitti perché gente che compra Taribo West e Hakan Sukur non capisce niente di calcio. Amen. E poi uno si chiede perché il calcio italiano non vinca più un casso.

No, la storia non la scrivono i vincitori, ma la scrive solo lui, Luciano Moggi, che la può mettere in libreria accanto al suo ultimo libro “Il pallone lo porto io” (Mondadori), che è venuto a presentare ieri a Caffeina. La scrive lui, Luciano, l’ex vincitore ora ridotto ai margini del calcio dal più grande scandalo della storia pallonara – e non solo -, dalle sentezze sportive e ordinarie, a partire da quella radiazione che vorrebbe dire no, il pallone non lo puoi portare più. E non giochi più. Ma qui, nella sala Benedetti dell’amministrazione provinciale, sotto l’organizzazione impeccabile dei professionisti di Officina Soccer, il messaggio non è mai passato. Anzi. Qui si mettono persino in fila per farsi il selfie col “Direttore”, arrivato con condazzo di collaboratori e bionda d’appoggio, e poi tartassato di richieste di autografi e dediche personalizzate.

La sala è monopolizzata da integralisti juventini, pericolosa razza d’estremisti che farebbe impallidire l’esercito del Califfato islamico. Qua e là ci sono anche uomini di calcio, come Ezio Piacentini, detto Rosichino, praticamente il Moggi del calcio provinciale, o come il direttore generale (stesso ruolo del Luciano dei tempi d’oro) della Viterbese Palmas. Ci sono anche semplici curiosi, come l’ex sindaco Gabbianelli, romanista fino al midollo e chissà cosa avrà pensato quando Moggi ha negato di avere avuto qualsiasi ascendente sulla Viterbese di Capucci, che fallì nel 2004. Mah.

Il tenore dell’incontro, moderato da Alessandro Usai (milanista, ma straordinariamente equilibrato) vive sulle accelerazioni dialettiche di Lucky Luciano, come lo chiamava Travaglio in tempi non sospetti, o forse già sospetti. Le stoccate alla federazione (“Certe cose successe alla Nazionale alla Juve non sarebbero mai accadute perché io non le avrei permesse”), quelle all’Inter (“Se a Mazzarri dai una squadra che si deve salvare, lui arriva a metà a classifica. Se gli dai una squadra per vincere lo scudetto, lui arriva sempre a metà classifica”: applausi fragorosi), quelle a Zeman (“Le sue squadre fanno divertire i tifosi ma anche gli avversari”). Qualcuno abbandona la foltissima platea e invia sms a chi resta: “Sparagli da parte mia”. Altri rimangono, rapiti dalle rivelazioni moggiane. Come quando racconta quel che fa oggi: “Scrivo su Libero, mantengo i contatti”. Faccio cose, vedo gente.

Lucianone in via Saffi

Lucianone in via Saffi

Culmine con Calciopoli. “Lo scandalo è scoppiato perché con la morte di Gianni e Umberto Agnelli, in famiglia si è aperta la lotta per l’eredità. Temevano che Giraudo portasse via loro la Juve, così ci dovevano far fuori, ma non potendo cacciarci per incapacità, visto che vincevamo, hanno tirato fuori altri argomenti”. Ancora: “Non ho mai chiuso l’arbitro Paparesta nello spogliatoio: la Procura ha archiviato tutto”. E poi: “La colpa è tutta del’avvocato della Juve Zaccone, che ha accettato il patteggiamento sportivo subito, facendo passare il messaggio che era tutto vero mentre le sentenze della giustizia ordinaria hanno detto che i campionati vinti furono regolari”.

Attacchi sparsi a giudici e inquirenti, prima della chicca sulle schede svizzere: “Le usavamo perché avevamo capito che ci intercettavano. Eravamo vittime di spionaggio industriale. L’unico errore che abbiamo fatto è pensare che fossero sicure, invece captavano anche quelle”. Che sfiga, per quella che a questo punto era a tutti gli effetti una comitiva di verginelle collegiali. O forse no: che fortuna per il calcio italiano.

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