Finalmente è finita. E’ finita questa campagna elettorale che ogni volta è peggio della precedente, in un’escalation di terrore che manco Al Qaeda. Finalmente è finita, e oggi bisogna soltanto scegliere, ricordandosi che nel segreto dell’urna Dio ti vede e Genny ‘A Carogna pure. Ma questa è una partita che si gioca dalle sette di mattina alle undici di sera, e al triplice fischio tutti a casa, a seguire i Processi del lunedì che sicuramente non mancheranno, ben imbottiti di grafiche, proiezioni & dichiarazioni, e naturalmente di gomblotti.
Finalmente è finita, questa doppia campagna elettorale che ci ha raccontato due mondi diversi, così lontani, così vicini e così conniventi, per usare un termine caro alle procure. Facce diverse, slogan pure, programmi quasi, e un territorio di caccia identico: la savana degli elettori, giovani e vecchi, uomini e donne, proletari (si dice ancora?) e borghesi. Tutto fa brodo, per guadagnare una fottuta preferenza (ma scritta bene, sennò il voto è nullo).
E partiamo dalle elezioni Europee, nome che già incute timore, perché composto da circoscrizioni vastissime: quella dell’Italia centrale, cioé la nostra, include Toscana, Umbria, Marche e Lazio. Quasi undici milioni di abitanti, sicuramente più grande di Piansano.
Qui i candidati sono creature mitologiche, metà uomo e metà Telepass. I forzati della politica, gente costretta a sforzi sovrumani, a tabelle di marcia estenuanti che neanche i turisti giapponesi in viaggio turistico. Esempio: sveglia la mattina ad Ascoli, comizio, partenza per Macerata, comizio ed incontro con gli industriali, pranzo al sacco, digestivo a Terni, comizio e visita alle acciaierie (se ancora ci sono), merenda a Perugia, aperitivo a Pistoia, cena a Grosseto, dopocena a Cerveteri. Riposo in albergo. E la mattina dopo via, lungo un’altra direttrice, da occidente a oriente, sempre col sole in faccia, gli stessi discorsi da ripetere adeguandoli al territorio, migliaia di strette di mano ai comitati di benvenuto, così solerti e così falsi, milioni di prosciutto e bufala mangiati in fretta, parlando e promettendo e sorseggiando acqua naturale, ché la gassata mi gonfia troppo, signora mia e mi si rinfaccia all’altezza di Magliano Sabina.
E però, vuoi mettere il brivido di vedersi materializzare nella piazza del paesello, o nel bar alla moda, o nella biblioteca comunale, o nel teatro, il signor onorevole faccia nota, vista in tivvù, durante qualche infinita serata invernale, a litigare da Paragone, o da Formigli? Che emozione, che privilegio. Sentirsi dire cose tipo: “Io a Bruxelles vado per governare, mica per il rimborso spese”. Opppure: “Ho proposto una legge sulla salvaguardia delle giuggiole marsicane”. Soddisfazioni immense, per l’elettore della strada. Incontri che ti cambiano la vita.
Ma poi ci sono anche le elezioni amministrative. Purtroppo o per fortuna. Qui nella Tuscia si vota in ventisette comuni, segno evidente che qualcuno, lassù, ci vuole parecchio male. Comunque. La dimensione è diversa, più piccola, ma non necessariamente più morbida. Il fatto è che la televisione ha trasformato ogni candidato di provincia in un Brunetta che ha dormito male. Fastidioso, provocatorio, pedante. Col risultato che parlando con l’aspirante sindaco di un comune di duemila abitanti, ti viene da chiamare i caschi blu dell’Onu, o almeno l’accalappiacani.
Per capirci: tutti – o la maggior parte – a scimmiottare i politici visti in diretta, tutti ad aggredire, insinuare, offendere. Peccato che davanti, quasi sempre, non abbiano tre milioni di audience, ma venti concittadini stanchi morti, e già tutti convinti di votare questo o quello. Fatica inutile, insomma, ma molto scenografica. Quando poi i candidati di paese hanno qualcosa da dire, ecco lo smacco finale. Tutti a raccontare le stesse cose, e sempre con le stesse parole: “Cercheremo i fondi europei per realizzare il museo del cetriolo”; (il cetriolo tira sempre) “Faremo un circuito turistico che attrarrà i croceristi di Civitavecchia” (e i marziani da Marte no?); “Toglieremo l’arsenico dall’acqua” (o viceversa). E altre amenità del genere, nonostante tutti siano consapevoli dei poteri ridotti – e delle casse sempre vuote – di ogni comune italiano. Comunque, loro parlano, promettono, si professano apolitici mascherati dietro alle liste civiche, quando tutti, nel borgo, sanno benissimo come la pensano. Sperano di vincere, domani, ma non sanno a cosa vanno incontro, coi tempi che corrono.
In ogni caso, auguri vivissimi. E che vincano i migliori. O almeno, i meno peggio.