di Andrea Stefano Marini Balestra
Viterbo,17.12.22 –
Nel 86esimo genetliaco di Sua Santità Papa Francesco è doveroso oltre fargli l’augurio di un lungo e proficuo pontificato, fare cenno all’attenzione che gli ha posto al fenomeno mondiale dello Sport.
Nei secoli passati, l’attività ludica, poi trasformata in discipline sportive non fu ben vista dalla Chiesa che preferiva per i fedeli una maggiore attenzione allo spirito piuttosto che alle attività fisiche . Ci furono eccezioni già nel XVI secolo quando San Filippo Neri radunò giovani romani in luoghi presso le chiese dove potevano esercitarsi in attività che oggi potremmo definire anche sportive “Servire domino in laetitia” fu il motto.
Poi, Don Giovanni Bosco, nei suoi oratori dove si faceva attività fisica ebbe definire il giuoco e lo svago come mezzo per giungere a Dio.
Bisogna arrivare alla fine del secolo XIX perchè Papa Leone XIII° sdoganasse lo sport nella Chiesa. Parlò di sport Pio X° che in gioventù fu valente montanaro e poi, con PioXII, si ebbe la creazione di un ente di promozione sportiva, il CSI, tutt’ora valido mezzo per avvicinare i giovani alla pratica cristiana attraverso lo Sport. Non parliamo di Giovanni Paolo II°, valente sciatore e giungiamo oggi a Francesco che da giovane nella sua Buenos Aires si interessava di calcio. Il suo tifo per il Club Atlético San Lorenzo de Almagro una delle migliori 5 squadre portegne, (cioè della Buenos Aires Capital Federal) è noto.
Papa Francesco ha firmato la prefazione al libro “Non è solo fatica, è amore” scritto da monsignor Dario Edoardo Viganò e dal giornalista Valerio Cassetta: storie di campioni dello sport rivelano il rapporto tra competizione, successo e valori, in cui l’essere umano è più e altro rispetto alla “macchina da spettacolo” celebrata dai media.
Ecco il pensiero del Papa che trascriviamo:
“Senza un allenatore non nasce un campione. Ci vuole qualcuno che sia un po’ visionario per riuscire ad intravedere in lui possibilità che, forse, nemmeno lui si immaginerebbe.
Quando un atleta raggiunge il proprio sogno di vittoria, sul podio sale da solo, per ricevere la medaglia che gli viene messa al collo. Eppure, a ben pensarci, a vincere non è arrivato da solo: senza un allenatore, infatti, non nasce un campione. Ci vuole qualcuno che scommetta su di lui, che investa del tempo e, soprattutto, che sia un po’ visionario per riuscire ad intravedere in lui possibilità che, forse, nemmeno lui si immaginerebbe. E farle brillare.
Un allenatore all’altezza della sua missione sa che deve lavorare molto sull’allenamento fisico: è il minimo indispensabile per tentare la conquista della vittoria. Ma sarà l’altra faccia della medaglia a fare la differenza: la capacità di motivare, di correggere senza umiliare, di stimolare alla resistenza. Di parlare al cuore, sapendo che più l’atleta è dotato di capacità e talento, più sarà delicata la gestione dell’anima sua. Poi, nel momento massimo della sfida, l’allenatore si farà da parte e accetterà di dipendere dalle gesta del suo atleta. Se l’atleta vince nessuna telecamera lo inquadrerà, non salirà sul podio, non avrà medaglie tra le mani. Se invece c’è una sconfitta, l’allenatore sarà pronto a metterci la faccia.
In questo senso allenare è un po’ come educare. In fondo, c’è una stretta e profonda relazione tra sport, vita e fede. Gli atleti che praticano sport ad alto livello improntano la loro intera esistenza intorno a determinati principi: il rispetto del prossimo e delle regole, la lealtà, l’impegno, il sacrificio, l’inclusione, lo spirito di gruppo, l’altruismo e la voglia di elevarsi. Altre volte ho ricordato come la stessa Parola di Dio ci permetta di leggere l’agonismo sano, quello che non è invidioso, come una dinamica che può contribuire alla maturazione dello spirito. Voglio ricordare due passaggi delle lettere di San Paolo: «Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo» (1Cor 9,24). Questo è l’invito, a mio avviso molto bello, a mettersi in gioco, ovvero non guardare il mondo dalla finestra di casa. Ancora San Paolo, quando sta parlando all’amico Filemone, sembra confessarsi dicendo: «Corro perché conquistato» (Fil 3,12). Questo passaggio è ancora più affascinante. Infatti, nessun atleta corre tanto per correre. Ogni atleta, ogni campione corre come attratto da un qualcosa, una sorta di bellezza che attira a sé colui che inizia a inseguirla. Del resto, qualunque cammino nella vita prende inizio da un fascino che attrae, che seduce. Da quell’inizio prendono poi il via lo sforzo e la determinazione di superarsi in una disciplina atletica.
La sensazione che dà la vittoria è talvolta complessa da descrivere, ma anche la sconfitta ha un suo significato profondo, autentico e nobile.
Si deve stare attenti alla facile lusinga di prendere delle scorciatoie, pensando che la strada più breve sia sempre la migliore e conveniente. Ignorare le regole del gioco, dello sport e della vita a cosa ci porterebbe? Senza regole il gioco non è bello, non è vero. Sarebbe artefatto, frutto di un imbroglio. E così anche la vita, che è fatta di vittorie e di sconfitte. Chi non vuole vincere? E chi invece vuole perdere?
Anche nell’insuccesso, però, c’è qualcosa di positivo. La sensazione che dà la vittoria è talvolta complessa da descrivere, ma anche la sconfitta ha un suo significato profondo, autentico e nobile. Chi perde non può sottrarsi al dovere di interrogarsi sul perché e sul come una gara, un esercizio, una partita non è andata bene. Chi perde ha necessità di fermarsi a riflettere, di analizzare i suoi errori, di farsi un esame di coscienza e ricaricarsi per ripartire. Ecco perché è da grandi disfatte che possono nascere bellissimi trionfi, cavalcate virtuose, risalite inimmaginabili. Chi è abituato a vincere, sedendosi sugli allori, rischia di scadere nell’arroganza e nella presunzione. La fatica fa parte del gioco, è una componente fondamentale, è un peso che ti spezza, ti logora e destabilizza, ma a quella fatica, che assume molteplici forme, va trovato un significato. Un senso. E allora il suo giogo si farà più lieve. L’atleta che, nella fatica, vede oltre, è come il santo che non accusa il peso e guarda lì dove gli altri non vedono. Il campione che trova la giusta spinta è contento di affrontare la fatica. Perché al di là dello scopo, conta il cammino, il percorso, il viaggio. Senza motivazione e stimoli, non si può affrontare il sacrificio.
Gli sportivi di oggi, conosciuti e amati dai più giovani, hanno una forte responsabilità, dovuta al loro talento e alla loro personalità, che li porta ad essere modello d’ispirazione, non solo sportiva, per le molte persone che seguono partite e gare, per gli appassionati e i tifosi. Per questo è fondamentale che uno sportivo abbia la consapevolezza di quanto una sua frase, un suo cenno, un suo gesto possano incidere su migliaia di persone. E quando questi gesti sono positivi, l’effetto benefico è moltiplicato, e per l’intera comunità c’è un vantaggio. Penso ad esempio a come molti campioni abbiano saputo coniugare studio e allenamento, successo e volontariato, le luci della ribalta e la riservatezza delle amicizie e della condivisione.
Questo libro vuole restituire il senso genuino e proprio di uomini e donne appassionate del proprio sport e della propria disciplina.
Questo libro vuole raccontare ciò che traspare in filigrana dalle storie dei campioni, restituire il senso genuino e proprio di uomini e donne appassionate del proprio sport e della propria disciplina ma, insieme, capaci di custodire un cuore che sa accorgersi dei drammi e delle fatiche delle persone che li circondano. Sono ritratti di uomini e donne che non si abituano al mondo fatto di applausi, luci e medaglie, ma sanno scorgere e ascoltare richieste di condivisione e di aiuto. Penso ad esempio alla partecipazione dei diversamente abili, alla vicinanza al mondo della ricerca scientifica e ai reparti pediatrici degli ospedali, agli aiuti concreti al mondo delle missioni.
Non sono ingenuo e so bene che attorno al mondo dello sport ruota un mondo economico di notevole importanza. E sono consapevole che il fascino di uno sportivo può trasformarsi facilmente in oggetto che genera profitto. Come ricordavo in una intervista a La Gazzetta dello Sport, la ricchezza rischia di far addormentare la passione che ha saputo trasformare un ragazzo, una ragazza qualunque, in un capolavoro straordinario. E penso che un po’ di “fame” in tasca sia il segreto per non sentirsi mai appagati, per tenere accesa quella passione che, da bambini, li ha sedotti. Infatti, è triste vedere campioni ricchissimi ma svogliati, quasi dei burocrati del loro sport.”
Papa Francesco ci ha dato un vera lezione sul valore dello sport. Grazie.