20092024Headline:

“VERSO IL VOTO” L’antifascismo elettorale delle “Sinistre” non convince più nessuno

Spaventare gli elettori, anzichè proporre qualcosa, campagna fallimentare della sinistra

di Andrea Stefano Marini Balestra

Viterbo,14.9.22- Siamo ormai a ridosso del termine della campagna elettorale ed il dies irae del 25 settembre si avvicina.

L’arroventata campagna elettorale, anche per cause metereologiche, si sta concludendo ed i partiti stanno serrando le fila.

Mentre nel raggruppamento di sinistra, etereogeneo ed assolutamente coeso, non vi sono programmi certi, nuovi ed interessanti, ma solo ripresentazione di vecchi ed adusi programmi, nel centrodestra appare qualcosa di nuovo, vedasi riforma presidenziale, riforma delle autonomie e maggiore incisività dell’Italia nelle scelte europee.

Ma la campagna elettorale della sinistra è scesa al ridicolo con la riproposizione dell’antifascismo a quasi un secolo dalla caduta del governo Mussolini e dalla attuale inesistenza di suoi epigoni.

Vediamo.

La difficoltà in cui versa la Sinistra nella campagna elettorale per le elezioni in corso suggerisce un intirizzimento ideologico cui fa di riflesso quello che potremmo definire una sclerosi ideologica.

Da tempo memorabile la sinistra si è insediata in posizioni culturali di vantaggio: presidia Università e scuola, governa giornali, influenza case editrici e condiziona emittenti televisive. Ciò è il portato di una strategia, quella gramsciana della “direzione culturale”, consistente nel perseguire la direzione intellettuale prima del dominio, ossia prima della direzione politica, ma anche di un compromesso, per quanto i democristiani hanno lasciato fare per decenni pur di mantenere il potere. Negli anni questa posizione si è consolidata alimentando il mito della superiorità morale della sinistra, che altro non è se non un risvolto della sua presunta superiorità culturale. E questa condizione è sopravvissuta anche al crollo del mito rivoluzionario, alla fine dell’ideologia, talché i Soloni dell’ideologia post-comunista e libertaria possono ancora oggi ergersi a censori del politically correct.

Tuttavia essa è andata incontro negli anni ad un irrigidimento, nella misura in cui ha perso sempre più contatto con la base sociale, con quello che in altri termini si dice il “paese reale”, regredito nel linguaggio accreditato a “pancia del Paese”. Di qui viene non solo e tanto l’assenza di progettualità, quanto l’incapacità di rapportarsi alle dinamiche del presente e al “popolo”, su cui hanno invece sempre più presa i “populismi”.

In questo quadro, il fascismo è «trasformato in una categoria eterna e in un pericolo permanente», nemico da battere comunque anche se non c’è più.

Nella miseria attuale della cultura di sinistra che ha fatto il suo tempo il mantenimento in vita dell’antifascismo non è una “semplice manovra tattica”, ma “una stretta conseguenza” della narrazione progressista, ossia una chiave storiografica esiziale a quella. Il fascismo, per la sinistra, gioca in quella narrazione un ruolo altrettanto necessario, nella misura in cui è l’antitesi necessaria, l’ingranaggio che muove la dialettica dello scontro, il protagonista negativo senza il quale il protagonista positivo, l’antifascismo, non avrebbe ragione di essere.

Pertanto, a corto di idee, lo scontro dialettico, anzichè centrarsi sui programmi elettorali da porre in confronto si è basato sull’antifascismo, sulla paura che un vittoria delle destre a cent’anni dalla Marcia su Roma sia riproposizione di quelle tesi, quindi di un fascismo rinascente.

Ma possibile che il prof. Letta non si renda conto che mentre uno Statuto dell’epoca poteva contenere spazi perché potesse nascere una dittatura, l’attuale Costituzione di una democrazia parlamentare lo esclude. Certamente una brutta figura evocare il pericolo di qualcosa che non esiste. Una campagna elettorale basata sul timore di qualcosa che non c’è, solo per screditare il rivale, non può che avere esito negativo.

Riprova di povertà intellettuale della sinistra che dopo decenni ha perso la pretesa supremazia culturale che si era peraltro autoassegnata.

 

 

 

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