Centomila processi per stregoneria e sessantamila condanne a morte. Sono questi i numeri spaventosi della caccia alle streghe, la persecuzione delle donne sospettate di compiere atti magici e patti con il diavolo, di cui si è macchiata l’Europa dalla fine del XIV a tutto il XVII secolo. In questa carneficina Francia, Germania, Svizzera e Paesi Bassi hanno fatto la parte del leone. Ma anche l’Italia dell’epoca, e di riflesso anche la Tuscia, non è stata terra immacolata. Se n’è parlato venerdì pomeriggio, a Palazzo dei Papi, nell’incontro “I processi di stregoneria nel Viterbese” a cura di Archeotuscia Onlus. Ospite e relatore, in una Sala Cedido gremita, lo storico e ricercatore montefiasconese Giancarlo Breccola.
Nella prima parte della conferenza Breccola ha affrontato le origini del “fenomeno strega”, che affonda le sue radici agli albori dell’umanità. Da Lilith delle religioni mesopotamiche, passando per le arpie e sirene greche e arrivando alle strigi romane, la storia sembra costellata da figure mitologiche/religiose, metà donne e metà uccelli (strix, da cui deriva la parola strega, era il nome dell’allocco), portatrici di calamità e sventure ma legate allo stesso tempo al ciclo della natura. “Come la dea Diana e la sue compagne – spiega il ricercatore – che volando sui campi durante il periodo delle ‘dodici notti’ (dal 25 dicembre al 6 gennaio) ne propiziavano la fertilità. La dea, associata a Madre Natura, si trasformava poi in una vecchia che veniva bruciata e dalle sue ceneri rinasceva una nuova divinità giovane e piena di forze. Da qui l’origine della nostra Befana”.
Questi miti, rimasti nell’immaginario collettivo e nelle tradizioni delle popolazioni dei secoli successivi, vennero bollati come superstizioni dalla cultura ufficiale e dalle autorità dell’epoca. Fu alla fine del XIV secolo, inizio di un periodo di rivolte, pestilenze e carestie, in cui occorreva un capro espiatorio su cui addossare tutti i problemi della società, che il peccato di superstizione si trasformò, mettendoci in mezzo il diavolo, in delitto di eresia. A sancirlo, dando così il via alla persecuzione, la bolla Summis Desiderantes di papa Innocenzo VIII (1484) e il Malleus Maleficarum, l’opera che codificò la caccia alle streghe creando un legame indissolubile tra stregoneria e sesso femminile. Adorazione e patti col demonio, partecipazione al Sabba, metamorfosi in animali (uccelli o gatti neri), malefici ai danni di uomini e bestie, antropofagia, vampirismo e capacità di volare le accuse più terribili e fantasiose. “Le vittime innocenti, processate, torturate e condannate al rogo – sottolinea lo storico – erano donne sole, nubili o vedove, vecchie e straniere, provenienti dalle classi sociali più basse, per lo più prostitute ed erbarie”.
Nella seconda parte dell’incontro Breccola ha esposto i casi di processi di stregoneria avvenuti nella Tuscia. Un lavoro di ricerca reso arduo sia dalla scarsità di documentazione arrivata fino ai giorni nostri sia perché quella poca che è stata ritrovata risulta incompleta. Ma qualche traccia di caccia alle streghe nel Viterbese, scandagliando le pagine ingiallite dei volumi negli archivi, è venuta fuori.
Si parte da Montefiascone, il documento è la breve notizia di un processo del 1566 ripresa in un volume di Bonafede Mancini. “Donna Betta di Bolsena – si legge -, contadina di età superiore ai trent’anni, sposata con un certo Tiberio, viene assolta dall’incriminazione di essere strega di cui fu accusata da alcune donne bruciate per stregoneria che l’avevano menzionata al cancelliere di Montefiascone”. Tracce di stregoneria anche a Vetralla, secondo quanto riporta in un libro Alberto Porretti, ex direttore dell’Archivio di Stato di Viterbo. “Nel estate del 1567 fu celebrato un processo ai danni di una vedova, donna Laurizia – racconta Giancarlo Breccola -. L’interrogatorio dell’imputata, accusata di stregoneria, non aveva fornito ai giudici prove certe di colpevolezza. Si procedette quindi con la tortura: spogliata e rasata di tutti i peli, per escludere la presenza di amuleti magici e segni diabolici, fu sottoposta a due tratti di corda (legata per le mani e alzata con una fune per poi essere lasciata cadere) ma non avendo ammesso di essere strega dopo quattro giorni fu interrogata nuovamente, appesa questa volta per i pollici con delle funicelle di canapa. Rimase così per tre ore ma nonostante l’intenso dolore Laurizia non confessò e venne assolta”.
Confessò invece una donna di Civitella D’Agliano, anch’essa torturata, secondo quanto scriveva nel 1507 l’orvietano Ser Tommaso di Silvestro. “Ricordo come furono prese a Civitella due femmine – legge lo storico -, una di 40 anni e un’altra giovinetta. La più vecchia, torturata con la corda, confessò di aver agito al noce di Benevento (albero sacro dei longobardi sotto il quale avvenivano, secondo le credenze, i Sabba orgiastici/satanici). […] Si ungeva con un unguento magico e subito veniva un caprone e cavalcandolo arrivava al noce… Com’era giunta aspettava le altre compagne: ballavano, saltavano, sguazzavano e facevano, tra uomini e donne, quella faccenda…”. Il verdetto non ci è mai arrivato.
Il caso più significativo (e terribile) è quello di una nota di spese del 1347, riportata sempre da Alberto Porretti. “Il camerario del Comune di Viterbo – dice il ricercatore – annota le spese accorse per il rogo di una certa Rita di Angeluccio: 30 soldi per gli ufficiali del Comune che dovevano presenziare all’esecuzione, 5 per l’affitto dell’asino che doveva condurla al supplizio, 5 per corde e funi, 30 per la legna e 20, infine, per i malfactores, ovvero quelle persone che durante il percorso dovevano torturarla strappandole le carni con delle tenaglie”. “Quello che è certo – conclude Giancarlo Breccola, citando Voltaire – è che le streghe hanno smesso di esistere quando noi abbiamo smesso di bruciarle”.