I valori delle analisi sono tutti alterati. O quasi. Viterbo (e la Tuscia) denuncia alto livello di apatia, scarso spirito imprenditoriale, ancora un elevato tetto di risparmio. Un lungodegente che ha la capacità di restare in vita nonostante i malanni cronici. Una storia importante alle spalle, prospettive vaghe. Una città e una provincia incastonate – meglio sarebbe dire imprigionate – in un territorio che testimonia legittimamente i fasti del passato e le crescenti difficoltà del presente. Una enclave che punta al Nord, ma resta agganciata al Sud. Che vorrebbe fare impresa, ma non riesce ad uscire di casa. Che ha risorse, ma non vuole spendere. Infine, una creatura incantevole che non sa valorizzare la sua bellezza. Stupido, un esercizio inutile, andare a individuare i colpevoli. Lo siamo un po’ tutti, in diversa misura, perché l’apatia, l’egoismo (individuale o di massa) producono sempre e ovunque immobilismo. Se vai a spulciare i numeri, ti accorgi che il nostro tessuto industriale è inesistente o quasi, limitato a una imprenditoria dal fiato corto (quasi duemila aziende spazzate via dalla crisi nell’ultimo anno); che la disoccupazione è superiore di almeno un punto alla media nazionale (tra i giovani sfora il tetto del 40%); che siamo attorno al settantesimo posto nella classifica nazionale del Pil, però abbiamo una concentrazione di banche più alta di Roma e Milano e una notevole capacità di risorse familiari. Il patrimonio di ogni viterbese, seppure eroso, resta consistente. Comunque tale da far fronte all’emergenza. Non c’è lavoro, non c’è uno scenario incoraggiante, eppure ci sono i soldi: in casa e in banca. Anzi, nelle banche. Circa duecento che punteggiano la provincia magari in forza di un solo sportello. Una anomalia. O forse no. In periferia potrebbe essere più facile lavare i soldi. Valori complessivi delle analisi alterati. Appunto. Signori, si balla come si suona. Un adagio che vale sotto ogni cielo. A Viterbo la musica è sempre la stessa da oltre mezzo secolo anche se evidentemente sono cambiati i suonatori (pure se non tutti). Spartito scelto dalle circostanze e dalle opportunità. Una volta era l’esigenza della difesa nazionale e la città divenne una sorta di piazzaforte militare; poi l’interesse culturale e nacque l’università. Un parto lungo e sofferto. Da ultimo il seducente slow dell’aeroporto. Aperto a tutti i solisti e a tutte le interpretazioni. In attesa che lo scalo fantomatico accolga i jet low cost, ha già veicolato migliaia di messaggi di speranza. Come quelli che emergono periodicamente dai fumi delle terme. «Non siamo all’anno zero», dice qualcuno additando il complesso ex Inps. Allora aspettiamo l’anno uno. Sarebbe il caso di scendere dagli aerei di cartapesta, uscire dalle brume delle fonti termali e atterrare. Magari pianificando interventi meno faraonici e più concreti, adeguati alle risorse (poche) disponibili e ai beni territoriali (tanti) che Iddio e la natura ci hanno regalato. Impossibile fare della Tuscia un’azienda ad alto valore turistico? Abbiamo beni immobili di primissima qualità. Un patrimonio da mettere a disposizione della collettività. Servono operatori capaci e di buona volontà. Il primo pensiero che ci balza in testa, così all’impronta: una o più joint-venture tra tour operator della Capitale e enti locali per abbinare vacanze romane a pacchetti turistici nella Tuscia. Insomma, offerte che comprendano magari itinerari a Vulci, Tarquinia, Caprarola, Civita Castellana, il capoluogo. E non soltanto una passeggiata lungo la via Francigena. Operazione difficile? Impossibile? Forse non altamente suggestiva in periodi politicamente delicati come quello che stiamo attraversando e in vista di appuntamenti che dovrebbero cambiare flauti e suonatori.