“Groppone da Ficulle fu lo più grande capitan di Tuscia. E io son colui che con un sol colpo d’ascia lo tagliò in due. Lo mio nome, stare attenti, lo mio nome est Brancaleone da Norcia’’. Era l’aprile del 1966 quando il film “L’armata Brancaleone”, diretto dal maestro Mario Monicelli, aiutato nella sceneggiatura da due mostri sacri come Age (Agenore Incrocci) e Furio Scarpelli, uscì nelle sale sbancando i botteghini italiani con un incasso di un miliardo e ottocento milioni di lire dell’epoca. Un autentico boom.
Un successo straordinario per un’opera che riuscì per la prima volta a rendere colto e allo stesso tempo popolare il genere della commedia, grazie anche a un cast stellare – Vittorio Gassman e Gian Maria Volontè solo per citare qualche nome – e una scenografia da sogno proprio nella Tuscia: Viterbo, Nepi, Canino, Vitorchiano, Valentano, Fabrica di Roma, Civita di Bagnoregio, Ronciglione, Tuscania, il lago di Vico, i monti Cimini e la Torre di Chia furono infatti le ambientazioni delle avventure di Brancaleone e della sua strampalata armata di straccioni.
In occasione del cinquantenario, è stata pubblicata in un volume dal titolo “L’Armata Brancaleone. La sceneggiatura”, edizioni Erasmo di Livorno, la sceneggiatura originale del film, con un’ampia introduzione curata da Fabrizio Franceschini, professore di linguistica all’Università di Pisa. Proprio il docente è stato ospite in un incontro di presentazione del volume all’Aula Magna del dipartimento Distu dell’Università della Tuscia.
In un dialogo a tre con i professori Riccardo Gualdo e Luca Lorenzetti, il linguista ha esposto agli studenti presenti in sala la sua tesi sul capolavoro di Monicelli, ovvero: al contrario di quello che si pensa, quella dell’Armata Brancaleone non è una lingua immaginaria o inventata. Un lavoro iniziato con il recupero certosino, dagli archivi e direttamente dai familiari di Age e Scarpelli, delle tre versioni della sceneggiatura, di cui l’ultima è stata riportata nel libro, e il successivo confronto dei testi. “Questo road movie – spiega il professore – che parte proprio qui dalla Tuscia, attraversa la via Francigena, e arriva fino al feudo immaginario di Aurocastro in Calabria, è ricco di dialetti. Ovviamente, è stato fatto un lavoro di scrittura degli sceneggiatori per storicizzarli a quello che poteva essere il linguaggio degli italiani del Medioevo, secondo l’ immaginario degli italiani degli anni ‘60. Senza dimenticare l’effetto comico che in una commedia del genere doveva essere sempre presente’’.
“Il film – prosegue – è pieno di riferimenti colti, che vengono fatti uscire dalla bocca dei personaggi di classe sociale più elevata, che vanno da Dante, vedere il personaggio di Brancaleone, ma anche il Bacco in Toscana di Francesco Redi, Jacopone da Todi, Manzoni, Belli e Pascoli”.
” L’idea di Monicelli, Age e Scarpelli – aggiunge – era che in questi anni oscuri, mal precisati, del Medioevo, la gente non doveva parlare in modo sostanzialmente differente dalle persone semplici di oggi’’. Ed ecco allora che i personaggi delle classi umili vengono associati alle varie aree dialettali, da quelli dell’Italia centrale in particolare quella del Lazio, come il ragazzetto Taccone (“scelto proprio durante le riprese nella Tuscia, che faceva il cameriere in un ristorante di un paese dei Cimini’’ dice l’autore), a quelli del settentrione (con Mangoldo e la sua lingua: un veneto con influssi piemontesi e tedeschi), fino al sud con Zito e il dialetto campano e così via diretti ai confini dello Stivale.
“Questo linguaggio sperimentale – conclude Franceschini – che costituiva una novità per l’epoca, era già stato però provato da Monicelli e dagli sceneggiatori con La grande guerra del 1959: nel film con Gassman e Sordi i soldati non parlavano in italiano ma nei dialetti delle regioni da dove provenivano’’.
“All’erta, miei prodi! Vi siete finora coperti di me**a, copritevi oggi di gloria!’’. E allora buon compleanno Armata Brancaleone.