Per gentile concessione dell’amico Vincenzo Ceniti in “Tuscia in pillole”
Viterbo,31,10.24
Il cimitero San Lazzaro di Viterbo in vista del mese dei morti. Ci accoglie una donna in bronzo, angelica e sinuosa, con gli occhi chiusi e la mano destra adagiata sul cuore, che vigila come una Parca su un monumento funebre presso l‘ingresso. Approccio vibrante, nelle prossime visite di novembre, per ricordare le opere d’arte custodite in questo luogo santo che si annuncia con un monito gelido, scolpito nel marmo sopra il cancello d’entrata “Non è qui tutto l’uomo, vive altrove la divina favilla”, dettato come le altre da tale don Felice Frontini, abate.
Dopo l’editto napoleonico di Saint-Cluod del 1804 che abolì la sepoltura nelle chiese, si progettò a Viterbo un unico cimitero al posto dei tanti sparsi fin dal Medioevo a ridosso e all’interno di chiese e monasteri. Pensiamo al piccolo camposanto di Sant’Angelo che venne rimosso nel XIII sec. per far posto al palazzo dei Priori e all’attuale piazze del Plebiscito. Me ce n’erano molti altri nel centro storico della città. Nel 1968 a seguito di alcuni lavori per la ristrutturazione del chiostro di Santa Maria Nuova, vennero ritrovati numerosi corpi, addirittura con lacerti di abiti ben conservati.
Per la “città della morte” fu scelta l’area di San Lazzaro, poco fuori della città, lungo la strada per Montefiascone, dove nel 1872 si gettarono le basi per la costruzione di un unico camposanto. Ebbe la meglio il progetto di Virginio Vespignani, ben noto per aver realizzato in città un paio di decenni prima il teatro dell’Unione. I disegni prevedevano uno spazio intorno al cosiddetto Pincetto abbracciato da un portico per separare le sepolture nobili da quelle povere che si sarebbero disposte, nella nuda terra, alle spalle dell’attuale chiesa di S. Lazzaro eretta poco più tardi e consacrata nel 1895.
Quel “nobile” confine discriminatorio, che oggi avrebbe trovato unanimi contrarietà, venne contestato pure allora e abbandonato, anche se il cosiddetto “cimitero vecchio” ha ancora oggi tutta l’aria di un ring di classe, con sepolture solenni ed aristocratiche. Entriamo nel Pincetto attraverso il cancello centrale ai cui lati s’appostano, a mo’ di quinte, due tempietti neoclassici oggi destinati a servizi. Sullo sfondo si aprono il piazzale e la chiesa di S. Lazzaro preceduta da un portico con due colonne in peperino tagliate tutte d’un pezzo dal marmorario viterbese Luigi Corinti detto “Falocchetto”.
L’interno propone una serie di affreschi del pittore viterbese Pietro Vanni (1845-1905) e la sua tomba con una lapide, datata 10 febbraio 1905, che riporta i nomi della moglie Angela Bevilacqua, del figlio Renato e la dedica del Comune di Viterbo “A Pietro Vanni, pittore insigne viterbese… per onorare l’illustre concittadino ne concede la sepoltura in questa chiesa da lui nobilmente adornata…”. Il busto collocato sul timpano della tomba è opera e dono della Società degli Artisti di Roma.
Le pitture alle pareti raffigurano a destra la “Resurrezione di Lazzaro” e a sinistra la “Resurrezione dei corpi”; nell’abside il “Cristo crocifisso” e nella volta il “Trionfo della Croce”. Sul fianco destro della chiesa si fa notare la cappella Vanni-Calabresi realizzata in stile gotico dallo stesso Pietro Vanni che plasmò di sua mano le terrecotte decorative nella fornacella del suo laboratorio. Suo anche l’”Angelo” in tempra collocato sotto la lunetta del portale.
I portici di Vespignani, di aspetto rinascimentale, ai lati dell’ingresso principale, ed altri spazi collaterali presentano una dovizia di austeri sepolcri d’autore appartenenti alle nobili famiglie viterbesi. A mente De Parri, Polidori, Grispigni, Scerra, Bazzichelli, Di Maria, Fani, Carletti, Grandori, Mazzaroni, Capotondi-Calabresi, Balestra, Spinedi, Bordoni-Francesini, Ascenzi, Schenardi, Rossi-Danielli, Prada, Ludovisi, Petroselli e numerosi altri.
Scultori, pittori e decoratori sono in buona parte viterbesi. Oltre al Vanni, sempre a mente ricordiamo Monteverde , Corinti (Falocchetto), Bianchini, Jelmoni, Aurelj, Zei, Fasce, Spinedi, Giannini, Gagni, Canevari, Gottardi, Paccosi, Salcini, il già citato Corinti, Nagni e numerosi altri.
A proposito di Francesco Nagni va segnalata la bella scultura della Dormitio Virginis da lui eseguita per la tomba della sua famiglia. Tra i sepolcri aleggia anche il ricordo di molti giovani che hanno dato la vita nelle due guerre mondiali. Nel riquadro militare, tra una scacchiera di croci bianche, sono sistemate la stele in travertino con i nomi dei caduti nella Grande Guerra (quanto resta del monumento già a piazza Verdi a Viterbo) e le tombe di alcuni “eroi” viterbesi: quella della medaglia d’oro Emilio Bianchi (1916), quella di Egisto Monarchi e Martino Signorelli (medaglie di bronzo), di Adolfo Marini medaglia d’oro (1941), di Francis Leoncini medaglia d’oro (1950) e dei nove Specialisti dell’Aviazione Leggera dell’Esercito caduti ad Abu Dhabi durante una missione civile il 21 marzo 1980.
C’ è anche il ricordo di un manipolo di militari austro-ungarici deceduti in prigionia a Viterbo tra il 1916 e il 1918. Una lapide nel retro della Chiesa elenca i loro nomi. Morale, Il cimitero di Viterbo fa parte a pieno titolo del patrimonio monumentale della città e andrebbe meglio valorizzato a cominciare dalla cura degli arredi comuni: bagni, alberi e siepi, muretti divisori, fondo stradale dei vialetti, segnaletica ecc.
Finale con le fave dei morti. secondo un’antica ricetta viterbese che si rifà a ricordi etruschi e romani, quando le fave, considerate elemento di espiazione, ,venivano usate nei banchetti in onore del defunto. Oggi si preparano in occasione del 2 novembre. Sono biscotti amarognoli che fino a qualche decennio fa si facevano trovare ai bambini sotto il cuscino come dono portato dall’aldilà. Sono a base di mandorle, farina, uva, limone, burro, zucchero e cannella.
ceniti