Redazione
Viterbo,19.9.23
Accadde che molti anni fa un sagrestano di una chiesa nel Veneto San Domenico a Chioggia), aiutato da un anziano del luogo , ebbero scoprire nell’orto un’ ancora di piombo, probabilmente di epoca romana.
Recuperato il reperto di prezioso piombo, anziche mandarlo per la fusione come avvenuto in tanti altri analoghi scoprimenti, lo affidarono ad un locale museo. Omisero di denunciare la scoperta alle competenti autorità come previsto dall’art. 48 della legge 1089/39, meglio conosciuta come “Legge Bottai”.
Finirono nei guai giudiziari il processo si chiuse per la loro morte.
Questa storia è emerse recentemente in un Convegno tenutosi recentemente a Palazzo Grassi a Venezia nel quale lo storico Luciano Bellemo ha denunciato il superamento della legge 1089/39 e la necessità di un suo aggiornamento in materia di procedure di comunicazione ritrovamenti. In parole povere si è detto che le attuali norme rendono difficile per gli scopritori la denuncia alle autorità e favoriscono cosi l’illegalità.
Costoro, però, pur essendo tecnici del ramo della archeologia, stanno dimenticando che la legge Bottai è stato il caposaldo della conservazione dei beni culturali in Italia, perchè, dal oltre ottanta anni difende il patrimonio archeologico dello Stato, cui, appunto per legge spetta la proprietà di quanto esista e che venga recuperato nel sottosuolo, nel mare ed in ogni luogo possano esserci. Un eventuale ammorbidimento potrebbe far cadere la sacralità del ritrovamento archeologico che rappresenta non solo il valore dell’oggetto, ma il suo percorso di come e perchè sia stato presente in un luogo e ciò, per ovvi motivi di studio sulle peregrinazione degli antichi
D’accordo che la legge Bottai ancora vigente, accompagnata con altre succedutesi nel tempo, sia draconiana per certi versi, ma è pur vero che ha reso possibile la conservazione di quanto gli antichi ci hanno lasciato nel nostro territorio, nei nostri fondali marini e lacustri, per cui ogni revisione, appare uno sfregio ad una delle leggi più illuminate del “ventennio”.
La giurisprudenza penale che si è formata da oltre mezzo secolo ha ben distinto le ipotesi di violazioni alle norme della 1089/89 dopo la sua entrata in vigore e le condotte precedenti, scriminando sempre coloro che avevano potuto dimostrare il ritrovamento e la conservazione di beni archeologici prima dell’entrata in vigore della legge stessa sul principio: nullum crimen sine lege.