di Andrea Stefano Marini Balestra
Viterbo,24.2.23
Il clamore suscitato nell’aula GIP del Tribunale di Pescara dai parenti, costituiti parte civile nel processo a carico dei personaggi ritenuti responsabili della distruzione dell’Hotel Rigopiano nel comune di Ferindola il famigerato 17 genna o 2017, pone alcune considerazione.
Orrendi i fatti che dettero origine alla prematura fine di 29 persone che in periodo di vacanza trovarono la morte in una struttura alberghiera che li ospitava. Vittime furono i clienti e personale dell’albergo colpito da una valanga.
Era ovvio per la Procura di Pescara aprire un fascicolo a carico di quanti ritenuti in varie forme responsabili, ovviamente, non della slavina, ma delle sue conseguenze sul fabbricato edificato in fondo ad una stretta valle.
La stampa di quei giorni convulsi narrò di operazioni al limite del possibile per il recupero di persone in vita intrappolate, ma vive, e purtroppo dei cadaveri dei caduti. Emerse che le vie d’accesso all’albergo non furono tenute sgombre dalla neve, che la Prefettura, avvisata telefonicamente, non si attivò tempestivamente per i soccorsi, che la costruzione non doveva essere realizzata alla fine di un canalone e che la proprietà dell’albergo non aveva messo in atto dispositivi di sicurezza come previsto.
Alla fine delle indagini, all’esito di perizie e controperizie, dopo quasi sei anni dai fatti è stato chiesto il giudizio per i presunti responsabili nel numero di 30.
Ieri, davanti al GUP di Pescara, all’esito dell’udienza preliminare: 25 assoluzioni, solo 5 condanne a pena ridotta per la scelta del rito.
Alla lettura del Dispositivo è scoppiato in aula il finimondo, I parenti delle vittime ed anche gli scampati al disastro, che prima avevano discutibilmente dimostrato in aula ponendo su ciascuna sedia vuota il nome e la foto dei loro cari defunti, si sono rivolti nei confronti del giudice in modo indecente ed hanno pure tentato l’assalto al “bench”, che in inglese rappresenta il luogo elevato dove siede il giudice.
L’atteggiamento di costoro che al grido “l’hanno ammazzati un’altra volta” evoca un sentimento di vendetta inammissibile in uno stato diritto che amministra la giustizia.
Oggi, nel 3° millennio, l’aministrazione giudiziaria (certamente negli ordinamenti civili) non esercita vendetta, ma solo, con le sue sentenze sanziona comportamenti illegali ristabilimento cosi l’ordine
Una condanna di qualcuno non è mai vendetta dello stato nei confronti di chi sia stato reso trasgressore di una norma, come, per, non può considerarsi vendetta quella di un Comune che sanziona un divieto di sosta di un’auto nel suo territorio.
Quindi, le manifestazioni di dissenso che spesso vengono narrate all’esito della lettura di sentenze penali, suonano come desidero delle parti offese non tanto per pretesa denegata giustizia, ma per non soddisfatta vendetta nei confronti di coloro che essi ritenevano responsabili delle loro disgrazie.
La Giustizia viene amministrata da magistrati che dei fatti a loro sottoposti per un giudizio, hanno solo una visione legale legata alle indagini e mai sul clamore mediatico sollevato dai media.
Se ben 25 dei 30 rinviati a giudizio sono stati assolti significa che nei loro confronti non sono state trovate condotte penalmente rilevanti, tant’è, che anche il reato loro ascritto dalla Procura di disastro colposo, è stato cancellato, quindi ridimensionata l’accusa che comprendeva per alcuni alcune condotte diverse dal fatto principale del crollo del fabbricato alberghiero
Gridare “Vergona” nei confronti del giudicante rappresenta un desiderio odi vendetta non realizzato, non un desiderio di conoscere la verità.
In conclusione, la Giustizia non va mai attivata per una soddisfazione di vendetta e nemmeno deve essere considerata un bancomat.