di Andrea Stefano Marini Balestra
Roma,16.10.22- Oggi sui giornali ancora non ho letto nulla per questa data. Sono 79 anni quelli passati dalla razzia nel ghetto di Roma degli ebrei ad opera delle SS. Voglio aggiungere queste note per amore della storia e della verità
Il 16 ottobre 1943 è una data importante per la comunità ebraica di Roma, ma anche per la città intera. Per gli ebrei romani è l’ultima tappa di un triste itinerario iniziato nel settembre del 1938 con la promulgazione delle leggi razziali. Tra queste due date esiste un profondo legame: per molti ebrei romani infatti le leggi razziali hanno rappresentato l’anticamera dei campi di sterminio nazisti. Il 1938 è un anno cruciale. La vita cambia in tutti i suoi aspetti, pubblici e privati. È una svolta che coinvolge tutti gli ebrei, dai bambini agli anziani, da chi nasce a chi muore. Dal 1938, infatti, “ufficialmente” gli ebrei non muoiono più in Italia: è vietata anche la pubblicazione dei necrologi sui giornali. Dal 1938 gli ebrei in Italia devono diventare “invisibili”. Tuttavia, come avrebbe mostrato il 16 ottobre, gli ebrei erano molto visibili, facilmente reperibili: erano registrati in una lista, quindi perfettamente identificabili, per separare il loro destino dal resto della popolazione romana.
Si è discusso a lungo, in sede storica, su quest’atto discriminatorio di Mussolini: un’imitazione cedevole del sistema hitleriano o una scelta dettata dalla logica del regime? Le leggi razziali, con il loro risvolto antisemita, hanno avuto in Italia un “carattere blando” dovuto essenzialmente a un tipo di razzismo “perbene” rispetto a quello nazista? Gli italiani sono stati davvero antisemiti o piuttosto spettatori passivi della politica mussoliniana? Le domande si sono affollate in sede storiografica attorno a uno degli episodi più drammatici del Novecento italiano. Si è sostenuta una distinzione tra il periodo della “persecuzione dei diritti”, relativamente agli anni tra il 1938 e il 1943, e il periodo della “persecuzione delle vite”, tra il 1943 e il 1945.
Sta di fatto che i due periodi si saldarono tra loro, proprio in quel tragico ottobre 1943. La deportazione degli ebrei fu possibile in maniera così radicale e rapida perché questi italiani “invisibili” erano già stati isolati e ben identificati con le leggi razziali. L’assenza dello sterminio come obiettivo della politica razziale fascista non produce un antisemitismo innocuo, come si vede proprio nella tragica saldatura del 16 ottobre 1943.
In molte storie degli ebrei romani e italiani risuona l’interrogativo: perché le leggi razziali discriminavano senza motivo alcuno una parte degli italiani? Si legge nel diario inedito di un ufficiale delle Regie Forze Armate: «Perché anche da noi si è ripresa la persecuzione contro gli israeliti? E si sono emanate quelle leggi sulla difesa della razza che sono il disonore della moderna civiltà?». Migliaia di «perché» hanno risuonato nell’esistenza di quegli ebrei italiani che furono prima costretti ad adattarsi a una nuova e dura situazione, poi a lottare contro la morte.
Fu un tragico caso? A distanza di più di mezzo secolo, la maggior parte degli storici concorda nel ritenere che le leggi del 1938 non furono un caso, ma rappresentarono la prevalenza di alcuni elementi della storia italiana e del regime fascista.
Le vicende degli ebrei romani rivelano, infatti, la dolorosa e progressiva presa di coscienza della persecuzione, non come un’imposizione dello straniero, ma come un dramma italiano, quello di italiani contro italiani. Quando la razzia degli ebrei romani è compiuta dai tedeschi, compaiono sempre alcuni italiani come collaboratori, delatori, complici e, talvolta, veri persecutori.
In Italia furono eseguiti 1898 arresti di ebrei da parte di italiani, 2489 da parte di tedeschi, 312 vennero compiuti in collaborazione tra italiani e tedeschi, mentre non si conosce la responsabilità dei rimanenti 2314.
Certo non tutti gli italiani condividevano la persecuzione nei confronti degli ebrei: probabilmente la maggioranza era contraria. Non solo una diffusa contrarietà ma pure con significativi episodi di solidarietà verso i perseguitati. Lo Stato dichiaratamente antisemita era spesso contraddetto, a livello pratico, alla gente che non lo seguiva. Il vissuto degli ebrei mette anche in luce come niente fosse ideologicamente prestabilito nel comportamento dei romani.
Gli ebrei di Roma sono e si sentono romani e italiani. Sono cittadini a tutti gli effetti. Vivono con i non ebrei, con loro frequentano le scuole pubbliche, lavorano insieme, trascorrono insieme la villeggiatura. Non esistevano differenze, né volute, né provocate. Gli ebrei erano uomini e donne con cui si viveva, si studiava, si lavorava, si frequentavano le stesse scuole, gli stessi uffici, spesso senza quasi percepire la loro identità religiosa o culturale.
Esiste un pregiudizio, anzi diversi pregiudizi, ma puntualmente si infrangono e si sciolgono nel contatto con gli ebrei. I quali per origine, dialetto, tradizioni culturali e familiari, abitudini culinarie, e anche certo disincanto dinanzi a papi, imperatori e autorità, appaiono romani, capitolini, forse più di tanti abitanti della città. Inoltre godono di un variegato ventaglio di posizioni sociali, politiche, professionali, culturali, tanto simile a quello dei loro concittadini. Non sono, gli ebrei romani, un gruppo a parte, organizzato in lobby.
Molti, tra Ottocento e Novecento, prima della persecuzione, avevano già abbandonato il ghetto, luogo di oppressione secolare eppure caro al cuore e alla memoria. Si erano stabiliti in quartieri e appartamenti dovunque nella città. Nel ghetto restavano soprattutto i non benestanti. Molti avevano tentato, fuori dal ghetto, la via dell’ascesa sociale borghese. Un folto numero era rimasto in condizioni disagiate. I piccoli mestieri artigianali, o la vendita ambulante, erano rimasti prerogativa di una parte della comunità ebraica romana. I “robivecchi”, raccoglitori e venditori di qualsiasi oggetto, erano frequenti tra gli ebrei del ghetto.
La delusione per le leggi razziali del 1938 è accresciuta dal sentimento di avere contribuito alla formazione e allo sviluppo dell’Italia, magari con il sangue dei familiari caduti nella prima guerra mondiale. Come tanti ebrei tedeschi che si sentivano patrioti prima dell’avvento di Hitler, anche gli ebrei italiani avevano la loro patria. Solo il dieci per cento dei circa cinquantamila ebrei italiani emigra tra il 1938 e il 1945. Di questi, pochissimi, sono gli ebrei romani che concepiscono l’idea di lasciare Roma, considerata la città loro e dei loro da tempo immemorabile. Lo stare a Roma era un motivo di orgoglio, e ancora di più il fatto di abitarvi da un centinaio di generazioni, già nell’epoca di Giuda Maccabeo, ossia nel II secolo a.C.
Per richiamare le parole del rabbino Toaff: «Vi fu antisemitismo di Stato e non di popolo». Diversamente che in Europa orientale e centrale, in Italia e a Roma non c’era odio verso gli ebrei. Questo può spiegare la più favorevole percentuale di sopravvissuti.