“Quarant’anni dopo, l’agguato di via Fani ad Aldo Moro resta immerso in una cortina fumogena che ne rende impossibile scorgere i contorni. A tutt’oggi, non esistono certezze né sul numero delle persone che spararono né sulla effettiva dinamica di quanto accadde la mattina del 16 marzo 1978. Sul rapimento del presidente della Democrazia Cristiana, per molti anni si sono, per così dire, confrontati due blocchi ideologici. Il primo, facente capo all’area politica di centro e condiviso dalla destra, tendeva a indicare nella vicenda una regia dei servizi segreti dell’Est comunista e in particolare del Kgb sovietico. Il secondo, legato invece al Pci, poneva invece i fili dell’operazione nelle mani degli americani e della massoneria deviata, in particolare la P2. Una visione che, pur cogliendo molti elementi di verità nella tragica vicenda dei 55 giorni, è rimasta però ancorata a un’angolazione parziale, che col passare del tempo ha finito non per diradare i dubbi e chiarire il quadro, ma per fare esattamente il contrario”.
Lo scrive nella premessa del suo libro “La borsa di Moro” il giornalista napoletano Marcello Altamura, protagonista stasera presso la sala conferenze della Biblioteca Consorziale di Viterbo (in Viale Trento 18e), del secondo appuntamento del Salotto delle 6, kermesse culturale ideata e condotta da Pasquale Bottone. Insieme al cronista partenopeo (lavora al quotidiano “Cronache di Napoli”), anche il criminologo Giovanni Ricci (figlio dell’autista dello statista pugliese, Domenico, morto anch’egli nell’agguato di via Fani). La verità su quel 16 marzo 1978 è ancora tutta da svelare, tanto che se ne occupa la commissione bicamerale presieduta dal parlamentare viterbese Giuseppe Fioroni.
“Il presupposto per il libro – sottolinea ancora Altamura – sta nel fatto che la verità dei terroristi (gli unici che, a rigor di logica, potrebbero ancora oggi raccontare davvero come sono andate le cose quella mattina) fa acqua da tutte le parti: non aggiungere ma verificare quel che è stato sottratto. Riflettere su una serie di elementi concreti che, se messi in sequenza logica tra loro, portano a una realtà visibile eppure ignorata, in quella contorta logica della ‘perdita dell’evidenza’ di cui parla Pier Paolo Pasolini, l’intellettuale che prima di tutti aveva compreso e profetizzato la deriva attuale dell’Italia. I pezzi mancanti di via Fani, primo tra tutti la borsa di Aldo Moro, quella in cui il presidente della Dc portava i documenti più ‘sensibili’, ossia quegli elementi che sono emersi, attraverso testimonianze e indagini, ma che senza una spiegazione sono stati rimossi dalla scena. Tracce sulle quali non si è indagato, per volontà o per negligenza, o che, dopo un iniziale lavoro di ricerca, sono state fatte cadere nell’oblio. È uno spettro ampio, che va dalla immediata vigilia dell’agguato, sino ai giorni immediatamente successivi. Sono pezzi mancanti che sollevano una serie di domande: sul numero dei brigatisti, sulla dinamica dell’agguato, sulle armi utilizzate, sulla gestione delle primissime indagini sulla scena del delitto”.
Il libro si propone proprio questo: rispondere, dove possibile, a queste domande e porne di nuove. Senza aggiungere elementi di cui è complesso provare l’esistenza, ma provando a chiedersi perché alcuni tra quelli che a via Fani già c’erano, siano stati rimossi.