Anno 1956. Indefinito paesino dell’Appennino tra Parma e La Spezia. Piccolo borgo insignificante attraversato dai venti della Storia, quella con la maiuscola. La rivolta in Ungheria repressa col sangue dai carri armati sovietici; la tragedia di Marcinelle; il naufragio dell’Andrea Doria, vanto della marina commerciale italiana; il “nevone” (celebrato dalla grande Mia Martini al Festival di Sanremo del ’90). Grandi fatti (e anche piccoli), epocali per molti versi, rivissuti in quel lembo sperduto dove vive un’umanità particolare: il maresciallo dei carabinieri Mario Falcioni e i due graduati Airoldi e Nicolosi; il parroco don Moraldo Interleghi (uno che non la mandava a dire a nessuno) e il sacrestano di colore Jeff; il sindaco Marco Osio, avvocato, e la madre Luisa Gambaro Osio, la sindachessa. E ancora il capostazione Cuoghi Stefano, il farmacista Mussi, il segretario comunale Zoratto… Umanità variopinta, percorsa da mille fremiti, che si porta dietro un vissuto denso e inquietante.
Sono i protagonisti, più o meno importanti, di “Quelli che stanno nelle tenebre” (edito nella collana Robin&Sons di Robin Edizioni), esordio narrativo di Pierluigi Vito, giornalista professionista a Tv2000, oltre che voce e volto di tante cronache del Trasporto della Macchina di Santa Rosa. A presentare il romanzo nella libreria Etruria di via Matteotti lo scrittore Franco Limardi.
Innanzitutto il titolo, preso da un passaggio del Vangelo di Luca “perché anche tutti noi viviamo nelle tenebre e quindi questa è la storia di ognuno di noi. anche se non abbiamo vissuto direttamente quegli avvenimenti di 60 anni fa, ne siamo i figli e i discendenti: siamo una comunità di destino civile”. Poi i nomi dei personaggi: “Avevo la necessità di materializzare, di vederli davanti agli occhi”, spiega Vito. E allora il parroco si chiama don Moraldo Interlenghi come un attore famosissimo in quegli anni che interpretò anche il ruolo di Moraldo ne “I vitelloni”, film girato in larga parte nella Tuscia. Il comandante della stazione dei Cc è il maresciallo Mario Falcioni “come mio nonno materno. Se avessi avuto un figlio maschio lo avrei chiamato appunto Mario”. E poi i personaggio di contorno che sono i giocatori del grande Parma di qualche decennio fa (Minottti, Apolloni, Cuoghi, Gambaro, Mussi, Zoratto, Osio…) o comunque di persone che hanno orbitato nel mondo del calcio (Airoldi faceva l’arbitro, Nicolosi l’assistente: loro sono i carabinieri, quindi i giudici).
L’Italia sta uscendo dalle nefandezze della seconda guerra mondiale e quel paesino è il microcosmo dove convivono ferite ancora da rimarginare (e che mai si chiuderanno, forse), tensioni, passioni, ragionamenti, speranze, anche ideali. “Don Moraldo – spiega Pierluigi Vito – si ispira alla figura di don Primo Mazzolari, un prete che litigava con i democristiani e con i comunisti. Un parroco abbastanza sui generis capace di parlare dei poveri e di prendersela con il Pci, ma anche di criticare senza mezze misure quello che lui definisce il ‘comodo cattolicesimo borghese’. Anche lui ha sue increspature e non le nasconde. E poi c’è il maresciallo reduce dalla guerra: ne ha viste d’ogni colore e non si nasconde le difficoltà di tornare ad una vita normale. Crede profondamente nella legge e nella giustizia e anche in Dio. I suoi dialoghi col sacerdote danno il segno di quanto difficile sia stato a quei tempi suturare le lacerazioni di una guerra che fu anche civile. Tutti i personaggi, comunque, alla fine devono ridefinire se stessi”.
Impossibile sapere coma va finire. L’unica anticipazione è che il finale è caratterizzato da un groppo colpo di scena. E l’altra cosa che si capisce (ma non ci vuole poi tanto…) è che Pierluigi Vito tifa per il Parma. Così tanto che fra i suoi personaggi manca Gianfranco Zola perché “gli dei (del calcio) non possono scendere in terra…”.