“Tre sigle sindacali, Cgil, Cisl e Uil, hanno firmato il nostro ennesimo sacrificio, mentre solo l’Usb si è rifiutato di farlo”. Partiamo da qui, da una dichiarazione rilasciata da Stefano Congiu dell’Usb della clinica Santa Teresa il 18 settembre del 2015, quando – assieme agli altri sindacati – firmammo l’accordo sui contratti di solidarietà che permisero di salvare 34 posti di lavoro alla Santa Teresa e alla Casa di Cura di Nepi entrambe del gruppo RO.RI., evitando il licenziamento. Un percorso lungo e faticoso, durato più di un anno e mezzo. Una strada che avremmo voluto continuare a percorrere in accordo con la proprietà della clinica che fin da subito si è dimostrata disponibile al confronto e alla tutela dei posti di lavoro.
Ecco, cosa ha significato il rifiuto a sottoscrivere i contratti di solidarietà da parte dell’Usb, un comportamento portato avanti senza alcuna finalità ma con grande – e dal nostro punto di vista – immotivata coerenza? Ha significato ad oggi il licenziamento dei lavoratori a partire da gennaio, dopo più di un anno di battaglie condotte da Cgil, Cisl e Uil avvalendosi degli strumenti normativi a disposizione. Perché? Perché Stefano Congiu, con il suo “gran rifiuto”, ha spaccato l’unità sindacale e spinto la proprietà a chiudere la partita in via definitiva, considerando appunto il fatto che la maggior parte degli iscritti alle forze sindacali confluisce proprio nell’Usb. Un fatto che riconosciamo e dal quale ci saremmo aspettati maggiore coerenza nell’interesse e a tutela dei lavoratori. Primo su tutti, mantenere il posto di lavoro nel rispetto dei diritti che lo caratterizzano. Questo è il compito del sindacato, un sindacato che vuole rappresentare i lavoratori e proprio per questo deve avere i “piedi per terra” e non solo velleità per la testa.
“Noi non vogliamo più compromessi – affermava Congiu sempre nel settembre del 2015 – ma chiediamo di essere tutelati, di ritrovare dignità, risposte vere e chiare e che i sindacati tornino a riscoprire la missione per cui sono nati: difendere i diritti dei lavoratori e combattere per questi!”. Non vogliamo dare lezione a nessuno. La lezione ce la danno i lavoratori, con le loro vite, dignità e battaglie che ci hanno visto sempre a loro fianco. Noi, come sindacalisti, siamo chiamati a dare esempio di disciplina e coordinare le battaglie, utilizzando innanzitutto gli strumenti che la normativa vigente ci mette a disposizione. Tutto il resto, soprattutto le chiacchiere inutili, non ci interessa. Quindi – e tanto per fare chiarezza – come abbiamo portato avanti la lotta a sostegno dei lavoratori della clinica Santa Teresa e Casa di Cura di Nepi per evitarne il licenziamento? Per prima cosa, saputo nel 2013 che la proprietà aveva chiesto la mobilità per 34 lavoratori, abbiamo subito convocato un tavolo di trattative portandolo avanti per un anno.
L’obiettivo? Non avendo alternative – perché essere contro e basta quando ci sono in ballo le vite di 34 persone non serve a niente se non a far danni nelle loro stesse vite – la scelta è stata quella di allungare i tempi il più possibile in attesa di un piano di rilancio industriale dell’azienda legato all’erogazione di ulteriori servizi sanitari, autorizzazione arrivata nel giugno di quest’anno. Autorizzazione che avrebbe dovuto aprire le porte ad un ulteriore negoziato per salvare in via definitiva i posti di lavoro. Cosa che non è avvenuta a causa dell’irrigidimento dell’Usb e alla successiva spaccatura con la proprietà. Ma restiamo sul punto, vale a dire al tavolo di trattative aperto nel 2013 e conclusosi nel 2014 quando, per allungare ancora i tempi e scongiurare i licenziamenti, abbiamo chiesto la cassa integrazione per un anno. Finito anche questo – siamo nel 2015 – l’unico strumento che ancora restava a nostra disposizione era il contratto di solidarietà. E sappiamo bene che questo avrebbe comportato dei sacrifici per tutti i lavoratori. Sacrifici tuttavia non paragonabili ad un licenziamento, soprattutto oggi che trovare di nuovo un lavoro è decisamente difficile e la perdita d’occupazione può significare anche precipitare in una situazione di vera e propria emarginazione sociale, talvolta senza alcuna possibilità di ritorno.
Chi pensa che fare il sindacalista significhi alzare la voce e fare solo comizi in piazza, si sbaglia di grosso. Fare il sindacalista significa invece studiare, conoscere e approfondire le problematiche della categoria e del mondo del lavoro in generale e trovare le soluzioni più adeguate e nell’interesse dei lavoratori offerte dalla normativa in essere. La mobilitazione di piazza è un punto di arrivo, la sintesi di un percorso, la lotta portata in strada perché da parte del datore di lavoro non si vogliono ascoltare le ragioni dei dipendenti. Cosa che non ha caratterizzato la proprietà della clinica Santa Teresa e della Casa di Cura di Nepi dimostratasi da sempre disponibile al confronto e ad una soluzione che puntasse alla salvaguardia dei diritti dei lavoratori. Una delle primissime lezioni che si apprendono quando si comincia a fare sindacato, passatemi l’espressione per quanto forte sia, è questa: “avere i controcoglioni non significa per forza essere contro”. Una lezione che Stefano Congiu avrebbe fatto bene ad imparare, non nel suo ma nell’interesse di tutti i lavoratori.
Contratto di solidarietà significa che il lavoratore che non rischia il licenziamento rinuncia a 100 euro a fine mese per permettere a un suo collega – che al contrario il licenziamento lo rischia sul serio – di continuare a lavorare. E’ appunto una scelta di solidarietà tra lavoratori. Un risultato che ha un valore sia economico che etico, ed è la traduzione sul campo dell’articolo 2 della Costituzione che, per un sindacalista, è sempre bene tenere a mente. “La Repubblica – cito testualmente l’articolo 2 del dettato costituzionale – riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, ma “richiede” anche “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Contratto di solidarietà per tutelare i posti di lavoro, in attesa del piano di rilancio industriale concordato con l’azienda. Un piano che sarebbe arrivato a gennaio e per il quale continueremo a batterci per salvare più posti di lavoro possibili, sperando che a questo punto Congiu non metta la “rivoluzione” all’ordine del giorno dell’Usb o più semplicemente non peggiori la situazione più di quanto ha fatto finora.
Il contratto di solidarietà firmato nel 2015 e sostenuto da tutti i lavoratori ha permesso di arrivare alla fine di settembre di quest’anno quando, beneficiando delle ferie maturate, si sarebbe potuti arrivare a gennaio, imponendo a quel punto un nuovo tavolo negoziale centrato questa volta sul piano di rilancio e la possibilità concreta di garantire il lavoro a tutti. Questo non è stato possibile, perché l’ennesimo “niet” dell’Usb ha portato la proprietà a rompere ogni trattativa e a rifiutarsi di proseguire oltre. E se il vero interesse – a prescindere da tutto – era entrare in conflitto con la proprietà della clinica senza salvare i posti di lavoro, l’Usb ci è riuscita in pieno. Un risultato che però non rispecchia la vera natura di un sindacalista che pretende di essere tale.
“Da allora – incalzava Congiu nel novembre 2015 – i dipendenti iscritti hanno abbandonato in massa le tre sigle sindacali lasciandole con una manciata di iscritti”. A noi risulta invece il contrario, ed è paradossalmente la sua stessa firma in calce ai comunicati inviati ad evidenziarlo. Congiu si presenta infatti inizialmente (18 settembre 2015) come “portavoce dei dipendenti della clinica Santa Teresa”, per poi essere successivamente “declassato” (17 novembre 2015) a “portavoce di parte dei dipendenti”. Quale parte? Congiu è dell’Usb oppure è esponente di una nuova organizzazione spuntata a piacimento come un fungo? Ma “a parte” questo, la sua stessa firma sottolinea come in pochi giorni abbia perso un pezzo. Fino al suo ultimo comunicato in cui si firma soltanto come “Stefano Congiu Rsa-Unione Sindacati di Base di Viterbo”. Ha fatto carriera, oppure non è più portavoce nemmeno in parte?
Questi sono i fatti, tutto il resto sono solo parole e fuffa che i lavoratori sono costretti a pagare con il proprio posto di lavoro. Bel risultato, Congiu! Di questo possiamo darti pieno titolo e merito. Meno per le dichiarazioni offensive nei riguardi di Cgil, Cisl e Uil fatte in questi anni a dimostrazione che per Stefano Congiu l’unità sindacale non rappresenta un valore. Per quanto riguarda il rispetto, siamo adulti e sappiamo tutti – o almeno dovremmo saperlo – che si tratta di buona educazione. In tal caso, o ce l’hai oppure non c’è nulla da fare, se non soprassedere limitandosi a pensare che non tutti l’hanno avuta.
Infine, “…essi – spiegava Congiu in un articolo del 17 novembre 2015 riferendosi sempre a Cgil, Cisl e Uil – hanno contravvenuto al loro ruolo di ‘tutelatori dei diritti dei lavoratori”, oppure “non ci hanno tutelati affatto e ad oggi crediamo che sia evidente che non debbano avere più potere decisionale per noi”. Infine, dulcis in fundo (siamo al 5 ottobre di quest’anno), il delirio vero e proprio: “Possibile che non ci sia un organo preposto – domanda il sindacalista dell’Usb – per controllare i segretari sindacali in modo che lavorino veramente per tutelare i diritti dei lavoratori?”. Caro Congiu, quello che chiedi c’è già stato e ci sono voluti 20 anni di dittatura e clandestinità, tanti compagni sindacalisti e non morti ammazzati o in galera, un conflitto mondiale e tre anni di guerra civile e lotta armata per liberarsene e costruire con tutti i cittadini un Italia democratica, repubblicana e fondata sul lavoro. Caro Congiu, quello che chiedi si chiamava fascismo!
Lamberto Mecorio
Segretario generale Uil Fpl Viterbo