Mi viene in mente una piccola brutta scena a cui ho assistito qualche tempo fa: sul treno strapieno si stazionava stipati davanti al solito portellone – mentre alcuni miei conoscenti famigliari di ex dipendente ferroviario sedevano comodamente gratis in prima classe, ma questa è un’altra storia – fra noi un signore africano col figlio piccolo sul passeggino.
Quando il treno si ferma, l’uomo esce velocemente dal vagone per facilitare la discesa degli altri passeggeri, e il bambino inizia a chiamarlo impaurito, evidentemente spaventato dall’allontanamento inspiegabile del padre, per lui unico punto di riferimento nel mondo esterno, tutto il suo micromondo, cosa facile da capire. Così il padre si rifionda dentro per confortare il piccolo e urta una signorotta che stava nel frattempo scendendo, la quale gli grida qualcosa come “avete rotto! che modi! non se ne può più (di voi negri)” e lui non se ne cura e goffamente risale (e un paio di insulti dal sottoscritto la borghese xenofoba se li becca e zitta).
La cosa che però mi ha più disturbato è stato il fatto che mentre il bambino si dimenava e si disperava, anche se per pochi istanti, la gente che transitava non mostrava alcuna comprensione o tenerezza, anzi lo guardavano con fredda indifferenza; in particolare una signora abbastanza anziana gli ha detto molto secca “e sta’ bono che risale!” quasi con una punta di disprezzo del tipo “voi negri non vi abbandonate fra di voi”, non ho sentito nelle sue parole traccia alcuna di empatia, del minimo senso di protezione materno, di conforto.
Ho capito definitivamente che non sono i naziskin quelli da temere ma le persone qualunque, banalmente disumane, nel 2013.
Questo e molti altri pensieri (tetri e non) di Fulvio Venanzini, si possono trovare sul suo blog “Inquietologia”, piattaforma WordPress