X Factor
X Factor è oggi Sanremo, La Corrida di Corrado, Il Karaoke di Fiorello e il Grande Fratello concentrati in un solo programma e sintetizza il peggio di ciascun format televisivo. Nel dettaglio, non si tratta altro che del culto della personalità dei “giudici”, i veri e unici protagonisti del programma, delle loro più o meno verosimili schermaglie, della loro autoreferenzialità che diventa narcisismo e quindi “bullismo” su dei dilettanti allo sbaraglio, quel bullismo che genera lo spettacolo di cui il pubblico televisivo di oggi va ghiotto (e che del resto era già presente embrionalmente nel caro vecchio quiz televisivo).
Che si tratti infatti di cucina, di musica o di giardinaggio, quel che conta è la manifestazione del potere, la celebrazione della figura del castigatore che ex cathedra emette la sua sentenza, ha potere “di vita o di morte” sulle aspiranti popstar, e quando si commuove mostra la sua fragilità e benevolenza, anche quelle funzionali al mantenimento del suo carisma e della sua autorità. Sostanzialmente si vede sempre lo stesso programma, dove la disciplina specifica fa solo da contorno, è solo un pretesto.
Un modo maleficamente geniale di ottimizzare e tagliare i costi, producendo allo stesso tempo intrattenimento di bassa lega per le masse, e popstar senza possibilità di fallimento economico-imprenditoriale, almeno non nell’immediato.
Praticamente un capolavoro di marketing e una mostruosità culturale/etica allo stesso tempo.
Spettacolarizzando il “dietro” dell’industria, o meglio un “dietro di facciata” si genera nello spettatore l’illusione di assistere in diretta alla nascita del talento, alla scoperta della nuova star, e questa è anche una tecnica subdola per fidelizzare il pubblico a un nuovo tipo di mercato attraverso un capovolgimento/stravoglimento delle dinamiche classiche dello star system e del rapporto fra chi produce la musica e chi la consuma.
Ma X Factor, come tutti gli altri talent show, in fondo non è altro che una colorata celebrazione del modello autoritario – gerarchico di società, al di là delle sue implicazioni musicali-discografiche, al di là della mediocrità artistica omologante che produce, al di là del palese sfruttamento da parte dell’industria di giovani più o meno talentuosi che si offrono disperati a una sorta di lotteria, che si rimettono al capriccio del vip “arrivato” – spesso a sua volta nella stessa modalità – buttandosi nell’arena tv come gladiatori disperati, come giocatori in un casinò dove, è ovvio, il banco vince sempre.
“I talent show sono dei fenomeni creati dalle case discografiche come ricerche di mercato, per non rischiare niente e investire in prodotti sicuri. Funzionano così: le televisioni buttano nella mischia una serie di dilettanti allo sbaraglio; la gente sceglie chi preferisce; la casa discografica che finanzia il format produce un disco a costo zero, perché l’artista ha firmato un contratto capestro all’inizio della trasmissione. Insomma, è puro marketing.”
Manuel Agnelli, 2013
Questo e molti altri pensieri (tetri e non) di Fulvio Venanzini, si possono trovare sul suo blog “Inquietologia”, piattaforma WordPress