Tubino nero, attillato il giusto, e decolletè misurato; scarpe rosse; un filo di trucco (perché se non ce n’è bisogno, non ha senso esagerare): è lei la regina della convention fioroniana, organizzata dal Centro studi Aldo Moro. L’orario dell’appuntamento (le 15) non è il massimo, ma ugualmente all’appello mancano in pochi. Oddio, a guardar ben vedere c’è Enrico Panunzi da Canepina, ma non si vedono i panunziani: le assessore Troncarelli e Perà, ad esempio, o il capogruppo in consiglio comunale Quintarelli. Non ci sono i consiglieri Serra, Frittelli, Cappetti, Volpi, Troili. O tutti costoro non fanno più parte del Pd o forse (come si dice: a pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina…) l’assenza all’assise di palazzo dei Priori di giovedì scorso non è solo motivata dalla mancanza di coordinamento. Forse.
Come che sia, la platea è stracolma: alla reception si contano oltre 600 accrediti, ma molto probabilmente le presenze sfiorano le ottocento unità. Gongola Peppe da Pianoscarano, al quale arriva anche la benedizione del segretario provinciale dem Andrea Egidi (e non è che i due in passato si siano granché amati): “Una partecipazione così massiccia è un ottimo segnale in vista del referendum”. Già, perché questo è il tema sul quale donna Maria Elena deve pronunciarsi. Lo fa con garbo, mai alzando i toni e risparmiandosi qualche battutaccia verso i critici che, pur di sbugiardare lei e il gran capo Renzi, ne sparano di cotte e di crude un giorno sì e l’altro pure. L’unico accenno educatamente polemico se lo concede ricordando quanto sia “almeno singolare che le critiche maggiori arrivino da chi per trent’anni ha inutilmente promesso le riforme, senza mai farle”.
Si parte con un filmato incentrato sui grandi padri della Democrazia Cristiana: De Gasperi, don Sturzo, Dossetti, La Pira, Fanfani, naturalmente Aldo Moro. Ma è una convention del Pd o il revival della “balena bianca”? Magari uno spazietto per Enrico Berlinguer si poteva pure trovare. E poi che c’entrava papa Francesco? E soprattutto perché quella colonna sonora? “Un amore così grande” nella versione di Francesco Renga non si può proprio sentire. Va decisamente meglio con la degregoriana “Viva l’Italia che chiude l’appuntamento. E poi quelle luci azzurro – violette sono un po’ troppo basse: par di essere nel privè di un night… Quisquilie perché la cosa semplicemente funziona: e va detto senza infingimenti. Epperò la Boschi è educatina ma non le manda a dire, elencando con puntigliosa pazienza le bugie o le mancate verità (cit. Fiorella Mannoia): non si vota sul governo (ma era stato Renzi a personalizzare la faccenda, anche se adesso ha cambiato finalmente registro) perché le politiche si faranno nel 2018, non si vota per un regolamento dei conti interno al Pd (il congresso si farà l’anno prossimo); non sono toccati i principi fondamentali della nostra Carta costituzionale; la legge elettorale non c’entra nulla col referendum; non aumentano i poteri del presidente del Consiglio e non cambia la forma di governo prevista dal nostro ordinamento.
Sistemate le bugie (o le mancate verità: sempre la Mannoia di prima), si va alla ciccia, cioè a quello che davvero prevede la riforma: superamento del bicameralismo paritario; riduzione del numero dei parlamentari con trasformazione del Senato che sarà composto da consiglieri regionali e sindaci; contrazione dei costi della politica e delle istituzioni; abolizione del Cnel e interventi sul titolo V con il superamento delle Province per rendere più snelli e chiari i rapporti tra Stato e Regioni. Su questo saremo a chiamati a pronunciarci (la data ancora non si sa) con un sì o con un no.
“Change” è il motto che campeggia alle spalle del palco ed è anche il mantra che aleggia (e lo sarà sino al momento del voto) nella sala che ascolta quasi rapita. Non ci sono applausi a scena aperta e nemmeno la ministra li cerca con battute ad effetto: le interessa spiegare e far comprendere perché è importante votare “Sì”. “Votando sì – scandisce – si cambia; con il no si resta nella situazione attuale. E chissà per quanto tempo ancora”. E via con gli esempi: le leggi che ci mettono anni per essere approvate a causa del continuo andirivieni tra Camera e Senato; le norme che, in talune materie, cambiano da regione a regione: alla fine si contano venti legislazioni differenti; i tanti (troppi) permessi che servono per aprire un’attività artigianale o commerciale. “Noi vogliamo un’Italia più semplice, più forte, più stabile e che funzioni meglio”.
E non azzardatevi a parlare di riforma Boschi: “Non è la mia riforma: è la riforma che ha approvato, dopo due anni di duro lavoro, il Parlamento con migliaia di votazioni e di interventi e 6 voti definitivi nei quali il consenso è stato sempre molto ampio, più di quello su cui può contare il governo. E’ la nostra, anzi la vostra riforma”. E finalmente arriva l’applauso liberatorio, poi è il tempo dei selfie a raffica e dei saluti. Si può essere d’accordo o meno, ma la ministra sa il fatto suo. E poi è tanto, tanto carina…