Il 2016 è l’anno con il minor numero di ore di cassa integrazione richieste dal 2009 in avanti. Non è un dato positivo, perché meno ore si chiedono e più aziende hanno deciso di chiudere. Ciò significa che le politiche di rilancio dell’occupazione, di cui ancora non si vede luce – Jobs Act incluso – dovranno scontrarsi con la realtà. E la realtà dice che siamo ancora in piena crisi e a pagarne le conseguenze sono i più deboli. I dati sono contenuti nel VII Rapporto sulla Cassa Integrazione del Servizio Politiche Attive e Passive del Lavoro della Uil.
Con 45,4 milioni di ore autorizzate di cassa integrazione nel mese di luglio, i primi 7 mesi dell’anno in corso raggiungono complessivamente 390,4 milioni di ore richieste (-7,6% rispetto allo stesso periodo del 2015, quando ne furono richieste 422,5 milioni). Si tratta del numero più basso dal 2009, anno in cui si registrarono 461 milioni di ore di cassa integrazione. I dati risentono certamente della riforma dell’istituto iniziata con la Legge 92/12 che ha previsto la completa scomparsa della cassa in deroga dal prossimo gennaio 2017, con forte contrazione dei tempi di richiesta e delle risorse disponibili, sia di quella più recente contenuta nel Jobs Act. Difficile, viceversa, sostenere che la riduzione di richieste di cassa integrazione, sia attribuibile ad una ripresa del tessuto produttivo ed industriale. Nei primi 7 mesi del 2016 sono stati mediamente salvaguardati con la cassa integrazione, 328 mila posti di lavoro. Tale periodo, confrontato con il medesimo del 2015, mostra una riduzione delle ore di cassa integrazione ordinaria (-31,5%) e della deroga (-27,2%), a fronte di un aumento del 9,7% della straordinaria.
Chiedere la cassa integrazione significa sperare in una ripresa del lavoro, puntare a ridare lavoro e a mantenere aperta e viva l’azienda a fronte di un sostegno economico che garantisce le esigenze vitali di un lavoratore e della sua famiglia. Quando calano le ore di cassa integrazione vuol dire invece che l’azienda non si avvale di questo istituto perché ha deciso di chiudere, licenziando. Per invertire questo processo è fondamentale rilanciare politiche di sviluppo e di investimento a cominciare dalle grandi opere pubbliche, soprattutto quelle infrastrutturali di cui il Paese ha bisogno. Associando il tutto non alla riduzione “secca” del costo del lavoro ma dei costi del lavoro attraverso, ad esempio, la detassazione dei salari e la riduzione della pressione fiscale a carico delle aziende.
I dati sulla cassa integrazione mettono inoltre in evidenza l’esigenza di una vera e propria svolta politica e culturale in merito alle scelte che finora hanno riguardato il mondo del lavoro. Dobbiamo cambiare impostazione. Non sono i tagli al costo del lavoro che risolvono la situazione e che permettono di affrontare la crisi. I tagli, o leggi come il Jobs Act che mettono di nuovo il lavoratore in una posizione “giuridicamente subordinata”, ottengono come risultato solo licenziamenti e povertà. Sacrifici senza sviluppo. Sacrifici per i lavoratori e le piccole realtà aziendali. Sono i privilegi e le rendite quelli che devono essere tagliati, ricavandone le risorse per far uscire il Paese dalla crisi senza farla ricadere solo sulle spalle delle fasce più deboli della popolazione. Altrimenti il rischio è quello di divaricare ancor più la distanza tra chi, in tempo di crisi, si arricchisce e chi invece vede cascargli il mondo addosso.
Giancarlo Turchetti
Segretario generale della Uil di Viterbo