Negli ultimi anni è andata maturando una coscienza ecologica e sociale, una considerazione delle diverse necessità delle varie realtà urbane e suburbane, che richiede una revisione generale degli attuali modelli e confini regionali.
Tanto per cominciare esiste la realtà dei grandi agglomerati metropolitani, come ad esempio Roma, Milano, Napoli, etc. ed esiste poi la realtà delle piccole città, dei villaggi e del territorio agricolo e boschivo. Va da sé che l’amministrazione di entità che manifestano differenze così sostanziali non può essere gestita in modo “centralistico”, che altrimenti gli interessi dei grossi agglomerati porterebbe alla fagocitazione e rovina dei centri meno popolosi ed al loro snaturamento. Anche l’istituzione delle cosiddette “Aree vaste”, per una collaborazione intercomunale nei servizi, etc., non aiuterebbe il mantenimento dell’identità locale se non corroborata dall’esigenza primaria della conservazione dell’habitat e delle risorse naturali.
In Europa già da tempo si sta attuando una politica “decentrativa” separando l’amministrazione delle grandi città da quella del territorio extraurbano. Ad esempio vedasi Parigi oppure Monaco di Baviera, entrambe definite “Città Regione” indipendenti dal resto del territorio.
In italia se osserviamo la situazione amministrativa del Lazio, vediamo che l’ente Roma Capitale è solo un’operazione d’inglobamento delle realtà rurali limitrofe con accorpamento del territorio provinciale. Secondo il criterio bioregionale da noi proposto, invece, Roma ed una ristretta area metropolitana dovrebbe assurgere allo status di Città Regione.
Ed a quel punto non vi sarebbe nulla di strano nello scorporare l’amministrazione regionale in due enti: Roma Capitale e Lazio storico. Se ciò avvenisse, come avrebbe dovuto già avvenire, questo riaggiustamento sarebbe un buon sistema di rivalutazione per il territorio e per le piccole comunità.
L’attuale perimetrazione del Lazio, ricordiamolo, è il risultato di un ragionamento politico accentrativo (attuato subito dopo l’unità d’Italia e successivamente durante il fascismo) il cui risultato fu lo smembramento delle realtà amministrative preesistenti. Ovvero la Tuscia storica fu smembrata fra la Toscana ed il Lazio, e qui ancora separata in Tuscia viterbese e Tuscia romana. Altrettanto accadde con i centri della Sabina, con Rieti tolta all’Umbria e con diversi altri centri inseriti nella provincia romana e così pure avvenne nella Ciociaria, suddivisa fra Roma e Frosinone, e nella provincia di Latina creata ex novo in seguito alla bonifica pontina ed integrata da territori dell’ex Regno di Napoli.
A ben guardare, l’identità bioregionale di Roma Capitale ed area metropolitana, in senso stretto, dovrebbe corrispondere ai limiti dell’espansione urbana e adiacenze. Poiché è ovvio che le realtà civiche periferiche della attuale provincia di Roma andrebbero restituite ai loro ambiti originari, anche per un riequilibrio nel numero degli abitanti. Altrimenti, se tale operazione di riequilibrio non fosse attuata, la città metropolitana di Roma, compresa negli attuali confini della sua provincia, raggrupperebbe oltre i quattro quinti dei residenti totali nel Lazio.
Le considerazioni qui esposte sul riassetto territoriale andrebbero parimenti tenute in conto per tutte le altre regioni, soprattutto quelle che hanno al loro interno grandi città metropolitane.
Mi appello perciò al presidente del Consiglio, Matteo Renzi, affinché, in vista delle riforme da lui auspicate, tenga in esame questo metodo di sistemazione bioregionale della penisola, altamente necessario per un buona amministrazione locale e per il mantenimento di una identità locale condivisa.
Paolo D’Arpini
Referente Rete Bioregionale Italiana