No, non siamo andati a cercare il solito viterbese finito nel posto sbagliato al momento sbagliato. No, non abbiamo intervistato quel vecchietto di Tuscania, facendogli (ri)vomitare quanto vissuto in un passato mai troppo lontano. E infine no, non tenteremo assolutamente di viterbesizzare una notizia che, nel bene e nel male, non ci appartiene.
Quei morti non sono i nostri. Perché è di cronaca provinciale che abbiamo deciso di occuparci. Quei morti, al massimo, sono di tutti. E in primis dei familiari ai quali è stato strappato via brutalmente il senso della vita. Il futuro. La voglia di andare avanti. Perciò è solo a loro che dedichiamo un pensiero. Forte, ma distaccato quanto basta. Rispettoso, ecco.
Sale il numero delle vittime del terremoto. Sale parallelamente allo sconforto generale. Alla rabbia. Al disappunto. All’incapacità di comprendere. Ci si chiede a cantilena “perché mai”. Ci si confronta in famiglia, senza trovare una risposta, una, che risulti decente.
E intanto il solito carrozzone si è già messo in moto. Il classico presunto tentativo dimostrare qualcosa a chi, purtroppo, stavolta ci ha rimesso più degli altri.
Così quel serbatoio bucato di Facebook ha immediatamente sfornato qualche hastagh: i “cancelletti del nulla”. Scrivi una parola, gli amici ti seguono a ruota, e intorno il mondo rimarrà tale e quale. Che succederà poi nelle ore a venire? Ci dovremmo giocoforza fotografare dietro una bandiera? Noi davanti, e sullo sfondo i colori di Amatrice? Non servirà a niente. Non porterà acqua a nessun mulino.
Brutale considerazione? Forse. Ma, a vederla bene, è questo che la storia insegna. Ai tempi di Assisi la rete non forniva ancora una panoramica globale (mordi e fuggi) delle disgrazie. La basilica crollata, i volti sporchi di sangue, le interviste e i dibattiti, sfumarono in quattro e quattr’otto.
Diversa invece la situazione di L’Aquila. Coi social padroni della scena mondiale, e in diversi (in molti) pronti a cavalcarli. Bertolaso divenne un eroe. O meglio, un presunto eroe. Cosa faceva prima e cose fece dopo nessuno lo sa. La certezza invece è che di quella gente lì, coloro i quali persero “solo” la dimora, si hanno notizie frastagliate e poco confortanti. C’è chi è morto di vecchiaia in tenda. E chi ha rimediato un tetto solo in questa primavera. Umile ricovero, sognato quasi otto anni, e abbandonato preventivamente la scorsa notte. Quel G8, dicono i “protagonisti passivi”, fu una discreta trovata pubblicitaria. E non dargli torto è il minimo che si può fare, se si vuole un tantino percorrere la strada della solidarietà.
A proposito, tralasciando Facebook, la politica, i miti-a-metà e tutto il pianeta surreale di contorno; se si ha la grazia di poter dare una mano, stavolta come le altre, le vie buone da percorrere sono poche ma semplici. Serve sangue (dove versarlo lo sappiamo tutti). Serviranno coperte, indumenti. Il cibo, quello scarseggia sempre. E nulla più. Andare sul posto se non si è preparati (tecnicamente e psicologicamente) fa rima con l’essere d’intralcio.
Tante volte, chiudendo, è meglio fermarsi e riflettere. In silenzio. O compiere minuscoli simbolici gesti. Un pugno di pasta è decisamente più utile, rivoluzionario e significativo, di qualsiasi bandiera sventolata nel nulla.
Qualche considerazione sul terremoto
La storia insegna: tante chiacchiere e pochi fatti. Coi social a farla da padrone
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