Un giovane viterbese che ce l’ha fatta. Anni e anni di studio e duro lavoro che alla fine sono stati ricompensati. Perché il tempo è galantuomo e alla fine il talento e l’impegno, prima o poi, pagano sempre. Lui è Francesco Mecorio, 37 anni, viterbese, che ha realizzato il sogno della sua vita: fare ciò che più gli piace e farlo come lavoro. In questo caso, insegnare agli altri a cantare e a valorizzare a pieno la propria voce. Un “vocal coach”, come lui stesso ama essere definito. Piccolo particolare: lavora a quasi 9000 km da casa. A Seul, in Corea del Sud.
Per le persone che non la conoscono: chi è Francesco Mecorio e cosa fa nella vita?
“Atteniamoci alle cose certe: 37 anni, viterbese di nascita, ho sempre passato poco tempo nella mia città natale con la quale ho un rapporto di profondo amore-odio. Nella vita aiuto gli altri a prendere consapevolezza della propria voce cantata e parlata, sotto varie forme. Ufficialmente ‘docente universitario’, con due cattedre alla Hongik University di Seul, dove insegno alla specialistica in Performing arts dal 2013. Ma mi piace di più essere definito ‘vocal coach’, visto che la docenza universitaria è quella che mi dà lo stipendio fisso ma poi in realtà lavoro ‘freelance’ anche in Italia, Regno Unito e Giappone, sia con professionisti e qualche celebrità (fammela tira’ un pochetto poi prometto che smetto) che con aspiranti tali. Dal 2015 sono anche stato nominato membro dell’international board della Kavpa (Korean association of voice for performing arts). Di fatto, vengo pagato per divertirmi e sentire gli altri cantare o recitare”.
Come ha fatto un giovane viterbese a finire a lavorare in Corea del Sud? Quale è stato il percorso che l’ha portata fin lì?
“La storia è assurda, semplice e complicata nello stesso momento. Riduciamola ai minimi termini: dal 2011 ho iniziato a frequentare dei corsi presso la Royal academy of music di Londra; sono stato un pazzo. Ogni mese partivo con le scarpe rotte e coi soldi contati (quasi sempre prestati) su qualche volo low-cost alle 5 di mattina e praticamente facevo il pendolare Viterbo-Londra. Nel 2013 l’università coreana per cui lavoro adesso ha aperto la facoltà di Musical theatre e il dipartimento di Performing Arts, e cercando un vocal-coach europeo o americano da inserire nel corpo docente la presidenza ha preso contatti proprio con gli insegnanti della Royal. Con mia grande sorpresa, il primo nome segnalato da Anne-Marie Speed, un dio nel campo della tecnica vocale che ha la cattedra di voce alla Royal academy, era il mio. Ho accettato di partecipare alle selezioni convinto che non mi avrebbero mai preso, anche per il mio inglese che a quel tempo era davvero terribile, e invece alla fine hanno preso me, avvisandomi solo 15 giorni prima della partenza. Dovevo stare a Seul 3 mesi, per un solo semestre, e mi sono detto ‘ok, non ho niente da perdere! Farò una figuraccia ma tanto non lo saprà nessuno in Italia’, e sono partito. In aereo mi ricordo che avrò smesso di piangere sulla Siberia, dopo almeno 5 ore di volo. Il pensiero costante era ‘ma che ce vai a fa’ che non vali niente? Adesso a questi che je racconti, brutto incosciente?’. E invece mi hanno riconfermato 3 volte come docente a contratto finché nel 2015 non mi hanno assegnato 2 cattedre”.
Come si trova lì con il lavoro?
“Se si escludono il gap culturale, gli altissimi standard di qualità richiesti nel lavoro, il lavorare in una lingua che non è la mia (l’Inglese) con cantanti che cantano brani in una lingua (il coreano) con la quale riesco sì e no a dare indicazioni al taxi e a ordinare al ristorante… Direi che mi trovo bene. Lavorare come insegnante di canto è molto più facile per almeno 2 motivi: innanzitutto a differenza dell’Italia, in Corea (ma in generale all’estero) il mio lavoro è considerato un lavoro, e anche un lavoro di tutto rispetto; e poi gli allievi coreani sono delle macchine. Non me ne vogliano gli altri, ma i coreani hanno una velocità di apprendimento e una dedizione all’allenamento di certo superiore alla media, anche se poi non disdegnano momenti di divertimento o relax”.
E in generale in Corea del Sud? Si è ambientato, cosa fa nel tempo libero?
“Bella domanda. Diciamo che se non mi trovassi bene, dopo 3 anni (inizio a settembre il quarto) sarei impazzito o tornato a casa. La Corea, ma soprattutto Seul, è un posto dalle mille possibilità. Seul è una città viva 24 ore al giorno, ricca, con tanta tecnologia ma anche tanta storia. Una metropoli di 24 milioni di abitanti che assomiglia a New York ma è ancora vivibile e organizzata in quartieri che la rendono un agglomerato di piccoli paeselli. I trasporti sono efficientissimi, i ristoranti, le palestre, i supermercati e molti negozi sono aperti 24 ore, la criminalità è bassissima, i pericoli nulli (certo, se escludiamo la minaccia di una guerra nucleare con il Nord), la tecnologia a volte lascia a bocca aperta. Tanta cultura, tanti teatri, tanti divertimenti a volte anche assurdi tanto cibo di ogni tipo e di ogni nazionalità. Ma per tutto questo naturalmente si paga il prezzo del gap culturale, che a volte mi crea dei seri problemi di comunicazione anche con gli amici più stretti. Gli italiani in Corea sono pochissimi, e la lontananza da casa e il sentimento di alienazione a volte sono devastanti. Per carità mi diverto tantissimo ma so che sebbene voglia ancora vivere in Corea, di certo non voglio morirci”.
Quando torna in Italia invece qual è la cosa che proprio non sopporta del suo Paese e che le fa dire “Voglio ripartire subito”?
“Amo il mio Paese, inutile negarlo. Nonostante abbia imparato presto a fare a meno del bidet e dell’espresso, proprio passando del tempo all’estero ci si rende conto di tante cose belle che solo il territorio e il popolo italiano posseggono. Detto ciò, sappiamo tutti che non è un bel momento, e sebbene l’Italia mi manchi tantissimo e ritorni sempre con tantissime aspettative, ci sono sempre tante cose che mi fanno ripensare. La situazione economica, naturalmente, con i costi di tutto alle stelle e i servizi scadenti, con gli amici che fanno fatica ad arrivare a fine mese. In generale direi che in Italia vivo sempre con una sensazione di incertezza e pericolo: non sai mai se quel treno passerà, non sai mai se il bancomat funzionerà, non sai mai se tornerai a casa e la troverai svaligiata, non sai mai se vivendo qui riusciresti ad arrivare a fine mese. Sono viziato, lo so”.
Insegnare canto in Italia e soprattutto riuscirci a vivere dignitosamente è possibile? Ma soprattutto, è possibile a Viterbo?
“Io sono sempre stato fortunato. Prima di partire non navigavo certo nell’oro, ma l’affitto e le bollette a fine mese erano pagati sempre, nonostante prima di dedicarmi alla musica abbia comunque fatto tutti i lavori del mondo (almeno quelli legali, via). Ammetto che però le cose negli ultimi anni sono cambiate e di parecchio. La provincia in ogni caso col suo passaparola e il suo calore dà comunque anche delle sicurezze: la gente parla, e se lavori bene si viene a sapere presto, e si creano dei rapporti stretti di amicizia con le persone che in teoria dovrebbero essere solo ‘clienti’. La passione e la forza di volontà comunque pagano sempre. E se si è disposti a lavorare non solo a Viterbo e a farsi discreti chilometri tra la nostra provincia e quelle limitrofe, lavorando molte ore al giorno e anche nel weekend, alla fine si sopravvive. La differenza sostanziale tra l’Italia e l’estero è principalmente la precarietà. Sperare in un posto fisso, che paghi 12 mesi l’anno e garantisca una pensione e una liquidazione, in Italia col lavoro che faccio io è quasi sempre un sogno. Nel Regno Unito e in Corea no. Ma del resto, ora, in Italia, chi è che non è precario?”.
Progetti per il futuro?
“Ieri ero in Galles. Oggi in Italia. Tra 5 giorni in Corea. Queste le uniche certezze della mia vita. Ho imparato a vivere il ‘qui’ e ‘l’ora’, gettando le basi per il futuro ma senza predeterminare troppo le cose. A dicembre scade il mio contratto e sinceramente non so cosa voglio fare. Seul in qualche modo sta diventando casa, ma avvicinarmi un po’ di più in Italia o esplorare un po’ più di Asia non mi dispiacerebbe. Sto valutando un po’ di ottime proposte sia a Londra che in Italia”.
Un consiglio che vorrebbe dare ai giovani, specialmente a quelli che vogliono lavorare nel mondo della musica?
“Mi sento sempre inadeguato a dare consigli, ma credo che sia doveroso almeno provarci. Ai giovani di oggi è stata tolta una cosa fondamentale che noi tutto sommato ancora avevamo: la capacità di sognare. Non ascoltate chi vi dice che non avete talento. Fate tesoro delle critiche, anche terribili, e miglioratevi. Il talento per il 90% è passione e impegno. E poi è importante rimanere se stessi. La società, il mercato, le persone ci vogliono sempre diversi, e ci fanno sempre sentire inadeguati. E’ importante stare al passo coi tempi, cercare di incontrare le esigenze del mercato e fare tesoro delle critiche, ma senza mai rinunciare alla nostra individualità che è la cosa più preziosa, perché quella ce l’abbiamo solo noi, ed è l’unica cosa che può davvero fare la differenza tra noi e gli altri. E poi naturalmente non posso evitare l’ultimo consiglio: viaggiate. Anche solo un po’. Perché il viaggio può darvi ispirazioni e impararvi cose che nient’altro può. E le esperienze all’estero, soprattutto se difficili, hanno il potere di farvi vedere quanto siete piccoli e quanto siete grandi allo stesso tempo. E nel vostro sentirvi insignificanti riscoprirete il vostro potere”.