Gli insegnanti sono soggetti alla sindrome da bornout due volte e mezzo più degli operatori sanitari e tre volte in più degli impiegati. Alla fine degli anni novanta la scuola venne vista come un affare, dal mondo imprenditoriale, sul modello di quello degli Stati Uniti. La domanda del mondo imprenditoriale, al mondo della scuola, fu che venisse gestita e organizzata come una vera e propria azienda. In Italia, dopo la riforma dell’autonomia di Berlinguer, nacque l’istituto Invalsi, famoso per i quiz a crocette, l’Ocse (Organizzazione per la ooperazione e lo sviluppo economico) e Treelle, un’associazione per una società dell’apprendimento permanente. Dalla riforma di Berlinguer alla Buona Scuola lo si può considerare un unico pacchetto, un’unica riforma globale. Ci volle tempo per far digerire agli italiani il fatto che è molto meglio la scuola privata che la pubblica.
L’attuale riforma della Buona Scuola ha portato a termine un processo iniziato negli anni novanta. Le scuole si sono riempite di un nuovo lessico e sono sparite parole come pedagogia, bambino, formazione dell’uomo e del cittadino. Ora si parla di offerta formativa, si parla di performance, utenza, di capitale umano e di “tenere” la classe. Viterbo è stata una delle città capofila, di un corso su questo tema.
Si parla, anche, di dirigenti e non più di direttori didattici. E se c’è un dirigente, c’è bisogno di uno staff dirigenziale e di una gerarchia. Ecco come gli organi collegiali diventano superflui. Sempre dalla riforma della Buona scuola si introduce il termine “docente contrastivo”, cioè colui che contrasta, impedisce la realizzazione o il raggiungimento degli obiettivi. Nella scuola entra il linguaggio imprenditoriale, atteggiamenti imprenditoriali e se la scuola è come un supermercato, dovrà avere anche una vetrina, un sito e un documento chiamato Pof (Piano dell’offerta formativa) o Ptof (Piano triennale dell’offerta formativa). Questo, in tutto e per tutto, è una specie di contratto con i clienti, cioè gli studenti. Lo scopo è quello di vincere la concorrenza delle altre scuole, o meglio, degli istituti comprensivi.
Nel Pof abbiamo il meglio che un alunno potrebbe aspettarsi: rispetto dello sviluppo specifico del bambino, i percorsi individualizzati, insomma una scuola cucita intorno ai bisogni dello studente. Una scuola che si adegua al contesto classe e poi su ciascun bambino. Ma in pratica, quello che poi si attua, è la ricerca di una standardizzazione di metodi e cervelli. Ma è difficile livellare tutti, quando si accolgono 200.000 studenti disabili o bambini con certificazioni come Ves, Dsa o, ancora, ragazzi extracomunitari. Il mondo ideale Invalsi, che ha lo scopo di valutare e quantizzare studenti, insegnanti e scuole, non raccoglie i risultati aspettati. I test a crocetta distruggono la diversità di ogni genere. In questo modo si abbandona la didattica a scapito di progetto che possa rendere l’offerta formativa più allettante e l’insegnante cercherà di educare lo studente a superare i test che via via gli saranno sottoposti.
E le scuole avranno i finanziamenti sulla base dei risultati. Gli Invalsi non sono obbligatori, ma la scuola procede a fomentare insegnanti e genitori in modo che i loro ragazzi risultino competitivi. Inoltre, vengono spacciati come anonimi, ma non lo sono affatto, perché c’è un codice studente che corrisponde all’elenco dei bambini. Quel codice accompagnerà lo studente per tutta la vita. Il ragazzo o la ragazza avrà così un curriculum e il valore legale del titolo di studio non vale più nulla. Il curriculum si avrà in automatico, costruito dalla seconda elementare. Se Invalsi fosse veramente un‘indagine statistica dovrebbe essere sottoposta a campione, invece questa è su tutta la popolazione studentesca. Quindi abbiamo un’impresa che si dimentica della didattica e fa di una attività formativa un’attività produttiva.
L’insegnante che oggi ha un percorso di studi lunghissimo, master e scuole tutte a pagamento, arriva alla cattedra, per uno stipendio che è sulla soglia della povertà. Con questa riforma vince un contratto triennale, a chiamata diretta, ad opera del dirigente scolastico. Il senso di frustrazione e di inganno nei confronti di un sistema marcio è devastante. I docenti si ritrovano, da subito a fare i conti con un’organizzazione-impresa che guarda solo la produzione. Ecco come l’insegnante, colpito da continue pressioni e dalla snaturamento del suo lavoro, viene avvolto dalla sindrome del bornout.
Rossella De Paola