La riserva, vuoi o non vuoi, è finita in riserva. E tutto è rimasto così, sospeso. Tra l’abbandono (in)completo e la parziale manutenzione. Per il dispiacere collettivo, chiaro. E per l’ennesimo biglietto da visita di questa Italia che non ha mai saputo farsi bene i suoi calcoli. Ora però, però però, il pacchetto è destinato a nuova vita. Come l’araba fenice (paragone scontato). O meglio ancora, come la bottiglietta d’acqua che prima faceva fare plin-plin ed adesso invece diventerà un grazioso impermeabile (questo va meglio).
Ma andiamo per ordine. Location: Farnese. Lassù, in Alta Tuscia, ci sarebbe la riserva naturale “Selva del Lamone”. Un polmone verde di rara bellezza. Un bosco incantato caratterizzato da arbusti monumentali, da una fittissima vegetazione, da quella confusione ordinata tipica di ogni foresta che si rispetti. Per farla corta: lì dentro il brigante Tiburzi si ritirava quando capiva che fuori l’aria non era buona. Mica scemo, il Tibu.
Avanti. La riserva fu istituita nel 1994. A ridosso del 2000 vennero poi costruite, grazie ad un finanziamento europeo corposo e massiccio (bei tempi, quelli) le prime “capanne dei briganti”. O capanne dei carbonai. Ma va bene pure capanne dei macchiaioli. Strutture di pianta ovale, con mura in pietra e tetto in rami intrecciati. Stupende, all’occhio. Che passeggiare nel Lamone e trovarsele davanti era uno spettacolo nello spettacolo. Pareva di tornare indietro nel tempo.
Il progettone, comunque, era ad ampio respiro. Negli anni successivi vennero perciò tirate su altre capanne. Fabbricata una sorta maneggio per cavalli. Ed infine il pezzo grosso, la “Monta taurina”. E cioè un casale completamente edificato con pietre locali. Autosufficiente energeticamente (pannelli solari e gruppo elettrogeno). Ma, sopra ogni altra cosa, un altro pezzo che all’impatto spacca il cuore a metà, tanto è bello (ancora oggi).
Siamo nel 2016. Qual è lo stato di conservazione dell’area? Come detto in apertura le cose non vanno certo a gonfie vele. E per essere precisi occorre rimarcare che si sta parlando di una di quelle faccende intrecciate di brutto, burocraticamente. Poiché la proprietà è del Comune, ma non si può intervenire né farsi avanti né prendere iniziativa (si sta dentro una riserva, in fin dei conti).
Ok, ma allora uno si chiede: cosa le hanno costruite a fare? Tralasciando un passato sciupone e magari anche poco lungimirante (considerazioni facili, nell’era della crisi), va sottoscritto il buon intento di partenza. Praticamente l’idea era quella di creare un polo turistico eco-sostenibile. Con gli alloggi nelle strutture, il maneggio, il trekking, le mountain-bike e via discorrendo.
La cinghia stretta però, qualche calcolo sbagliato, la mancata voglia da parte dei privati di “provarci”, hanno reso il tutto una battaglia persa. Persa? In realtà non del tutto. Perché all’ultimo appello un qualcuno si è presentato. Anzi, si è presentata una cooperativa sociale di Tarquinia, la Aga.
Aga ha deciso di puntare sull’area. Ha preso in gestione l’intero accampamento. Non è dato sapere come intenderà svilupparlo, risollevarlo, sfruttarlo. È ancora troppo presto. Ma almeno “qualcosa si è mosso”. E non è poco. Affatto. In bocca al carbonaio.