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Trivelle, perché no al referendum

Nel dibattito, interviene Roberto Troncarelli, presidente regionale dell'Ordine dei geologi

trivelleDomenica 17 aprile si svolgerà il referendum abrogativo previsto dall’articolo 75 della Costituzione sulla durata delle trivellazioni in mare, ovvero per l’abrogazione dell’articolo 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152. Il referendum sulle attività di produzione di idrocarburi a mare, è stato richiesto per la prima volta nella storia, dalle Regioni, anziché da una raccolta firme. E già tale passaggio, seppur costituzionalmente corretto, fornisce una prima chiave di lettura del significato politico della chiamata alle urne. Io al referendum andrò a votare e metterò una croce sul “No”. In Italia i giacimenti di idrocarburi sono patrimonio indisponibile delle Stato e possono essere perciò sfruttati da imprese, che debbono richiedere una concessione governativa per l’esplorazione e poi una concessione governativa per l’estrazione: attualmente ogni concessione dura 30 anni e può essere rinnovata la prima volta per 10 anni, poi per altri 5 anni e di nuovo per altri 5; infine, se il giacimento è ancora produttivo, l’impresa può chiedere di estrarre fino a esaurimento.

Il 17 aprile si dovrà decidere se vietare il rinnovo delle concessioni estrattive di gas e petrolio già attive entro le 12 miglia dalla costa, e non si tratterà quindi di scegliere se proibire nuove perforazioni, per ricerca e/o estrazione, visto che per legge sono già vietate entro le 12 miglia dalla costa, mentre invece continueranno a essere consentite oltre tale distanza, nonché ovviamente sulla terraferma. Oggi la legge consente, a chi ha una concessione offshore entro 12 miglia, di rinnovarla fino ad esaurimento del giacimento. Delle 69 concessioni offshore attive oggi in Italia, 30 sono entro le 12 miglia. Il referendum riguarda le 30 concessioni “interne”, divise in 7 zone, di cui 5 interessate dal referendum: Alto Adriatico, Medio Adriatico, Sud Sicilia e 2 nel Mar Ionio. Se vincesse il “SI” gli impianti di queste 30 concessioni dovrebbero chiudere tra 5 e 20 anni, con effetto pertanto spalmato nel tempo. In Italia queste 69 concessioni in mare producono gas e olio attraverso circa 130 piattaforme, dalle quali deriva l’80% di tutta la produzione nazionale di gas ed il 9% di tutto il petrolio; tali quantità insieme soddisfano il 10% del fabbisogno interno.

I fautori del “SI” al referendum motivano tale scelta sostenendo essenzialmente l’inutilità di proseguire le attività di ricerca e produzione, poiché in Italia ci sono ormai pochi idrocarburi e di bassa qualità, il rischio ambientale o presunti danni al turismo. Considerazioni non supportate da fondamento scientifico. Per quanto riguarda la quantità di gas e petrolio giova ricordare che da 10-15 anni  si è osservata una drastica riduzione delle attività esplorative in Italia; ma tale tendenza si è avuta più o meno in concomitanza con la riforma del Titolo V della Costituzione, che ha introdotto l’attribuzione di competenze concorrenti fra Stato e Regioni nelle istruttorie concessorie; ciò ha determinato una sovrapposizione ed un inutile appesantimento dei processi e delle competenze che ha reso l’impianto autorizzatorio sempre più articolato, senza certezze temporali, scoraggiando gli investitori, soprattutto esteri.

Per quanto attiene la qualità, invece, è un concetto molto relativo che bisognerebbe trattare in parallelo con i processi lavorativi attinenti la raffinazione e la separazione delle diverse componenti. Le potenziali ricadute negative sull’ambiente potrebbero essere connesse ai rischi legati alle tecniche di ricerca ed estrazione, che inciderebbero, a detta dei “Si”, sulla fauna marina elevando il livello di stress, sul possibile rischio subsidenza, sull’effetto “marea nera” in caso di incidente che determinerebbe un forte inquinamento. “Si tratta di valutazioni prive di rigore scientifico e certezze documentali. E comunque, limitandoci all’aspetto inquinamento, il Mediterraneo già soffre di tale sindrome da trasporto di petrolio, come testimoniato dai recenti dati Ispra. Inoltre, la struttura dei pozzi petroliferi italiani, la geologia del sottosuolo, le condizioni ingegneristiche degli impianti sono molto diversi e più sicuri di quelli delle piattaforme nel mondo che sono state interessate da incidenti. Per quanto afferisce, infine, alle ripercussioni sul turismo, il rapporto causa effetto è tutto da dimostrare se è vero, come è vero, che l’Emilia Romagna, regione con il più alto numero di piattaforme, è anche una di quelle con il settore turistico più in salute.

Alla luce di tutto ciò, ritengo molto più convincenti le ragioni del “No”. In primis la questione energetica: l’Italia estrae dal proprio territorio solo il 10% del proprio fabbisogno energetico. Se terminasse l’estrazione entro le 12 miglia, quella quota parte di energia non verrebbe prodotta da pale eoliche, sonde geotermiche o pannelli fotovoltaici installati sul nostro territorio, ma dovremmo progressivamente acquistarla dall’estero, diventando ancora più dipendenti dai paesi fornitori, con onerose conseguenze sulle nostre bollette elettriche. Perciò seppur ritengo l’unica strada percorribile in futuro, attualmente quella delle rinnovabili è ancora così poco “agevolata” da politiche incentivanti adeguate, che non possiamo ancora fare a meno delle risorse fossili. Per quanto attiene l’aspetto ambientale, in caso di chiusura delle concessioni offshore “interne”, arriverebbero in Italia dall’estero, per sopperire al gap produttivo, molte più navi gassiere e petroliere di quante ne approdino ora, aumentando enormemente il rischio da inquinamento da idrocarburi nel Mediterraneo che già è stato interessato da importanti sversamenti da trasporto. La ricaduta sociale e occupazionale derivante dalla chiusura delle piattaforme significherebbe, infine, una progressiva perdita di posti di lavoro, seppur con effetto dilazionato nel tempo.  In conclusione, il referendum è lo strumento sbagliato per spingere il Governo a incentivare la produzione di energia da fonti rinnovabili; inoltre, temo che i fautori del “Si” siano affetti dalla nota sindrome di “Nimby”, che in Italia fa proseliti: Not In My Back Yard, ovvero purché “non nel mio giardino”.

E aggiungo il forte sospetto che il referendum sia un tentativo di alcune regioni di fare pressioni sul Governo, in un momento in cui quest’ultimo sta sottraendo alle stesse numerose autonomie e competenze, depotenziandole. Personalmente ritengo corretto andare a votare per esercitare un proprio diritto e per non sminuire la possibilità offerta ai cittadini di affermare le proprie opinioni e i propri valori, ma credo anche che gli stessi cittadini debbano impegnarsi tutti i giorni dell’anno affinché si attui il cambiamento che reclamano, e non solo una tantum con il voto.

 

Roberto Troncarelli

Presidente dell’Ordine dei Geologi del Lazio

 

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