Si possono mettere insieme due mondi apparentemente distanti come quello dell’agricoltura e quello del sociale? Sì, si può. Anzi si deve. Di più, il connubio è già solido e produce risultati significativi. Nel Lazio nel 2011 erano 33 le imprese che si occupavano di agricoltura sociale: nel 2015 si sono triplicate e sono diventate 96 (14 nella Tuscia). Ma che cosa si fa in questo tipe di fattorie? Ciò che si fa in una qualunque azienda agricola: si coltiva (molto spesso in forma biologica), si allevano animali, talvolta si fa anche trasformazione sul posto o ci si affida ad altre imprese collegate che si occupano del confezionamento e della commercializzazione. E fino a questo punto, nulla di strano, ma la caratteristica è che lì ci lavorano persone che appartengono in generale al cosiddetto “mondo dello svantaggio”: con handicap fisici o psichici, con problemi di dipendenze alle spalle, magari disoccupati o gente che ha perso il lavoro e che fa una gran fatica a trovarne un altro. E la cosa funziona: con risultati significativi sul piano sanitario e e su quello economico.
Ora, come spesso avviene in Italia, finalmente il parlamento è arrivato ad approvare (dopo lunga gestazione, come si dice) una legge che regolamenta il settore, fissando le linee guida di un comparto in larga espansione e che ha la possibilità di attingere ad ingenti fondi messi a disposizione dall’Unione europea. “E se non lo facciamo noi – sintetizza senza troppi peli sulla lingua Rita Visini, assessore regionale alle politiche sociali – se li prenderanno altri…”. A dire il vero, per la definitiva concretizzazione delle linee fissate dal provvedimento legislativo, mancano i cosiddetti decreti attuativi, ma il vice ministro dell’agricoltura Andrea Olivero è sicuro: “Ci stiamo lavorando e in tempi brevi saranno pubblicati”.
A proposito, l’occasione per parlare di questo significativo segmento del mondo agricolo, è offerta da un convegno organizzato dall’Università della Tuscia, in particolare dal Dafne, il dipartimento della facoltà di agraria che da anni si occupa della questione. “Precisamente dal 2001 – interviene il professor Saverio Senni, uno dei papà dell’agricoltura sociale – quando non si sapeva bene neppure come chiamare questa attività: si diceva agricoltura no profit o la buona terra, come denominammo un incontro dedicato proprio a queste problematiche”. Che cosa dice la nuova legge? “Si basa – aggiunge ancora Senni – su tre pilastri fondamentali. Innanzitutto, la multifunzionalità che la Fao preferisce definire ruoli: la sostanza non cambia perché in ogni caso si fissa il principio che in un’impresa di agricoltura sociale ognuno svolge una funzione e quindi ha una responsabilità. Il secondo aspetto rilevante il riconoscimento dell’importanza del sistema agricolo e sociale: un concetto che molto spesso conta più del contributo. Il terzo è il riferimento esplicito all’inclusione sociale. La sintesi secondo me è che si tratta di un progetto utile e responsabile che amplia il campo delle opportunità”.
“E’ riduttivo pensare – interviene l’onorevole Alessandra Terrosi (Pd) – che la legge sia solo un’opportunità economica per le aziende agricole, che pure non va sottovalutata. Ma è molto di più perché rappresenta l’apertura del mondo agricolo (talvolta piuttosto chiuso e in generale abbastanza tradizionalista) verso un altro mondo, quello appunto dello svantaggio. L’unione di esigenze differenti produce ricchezza perché comunque l’agricoltura sa accogliere e dare a ciascuno un ruolo preciso. Dalla crisi dobbiamo uscire tutti insieme senza lasciare nessuno indietro”. “Nel Lazio – si inserisce l’assessore Rita Visini – il 30% delle famiglie vive sul crinale della povertà, relativa o assoluta a seconda degli indicatori utilizzati, In sintesi, significa che per questi nuclei familiari basta una spesa imprevista di 700 euro per mandarle in profonda difficioltà. La Regione crede in queste iniziative, tanto che su 46 progetti approvati, ben 16 sono di agricoltura sociale”.
Ma allora, senatore Olivero, che cosa bisogna aspettarsi? “C’è un radicale cambiamento nella concezione del welfare: prima si pensava solo all’assistenza, oggi abbiamo intrapreso un percorso che porta al cosiddetto patto sociale. Peraltro indispensabile nel momento in cui le risorse pubbliche si sono drasticamente ridotte. La legge sull’agricoltura sociale è una prima, sia pure parziale, risposta ai bisogni dei cittadini, soprattutto quelli più svantaggiati. Nel lungo iter devo sottolineare il ruolo propositivo e culturale svolto dall’Università della Tuscia per la creazione del modello di welfare rurale che ha dimostrato di funzionare in tutta Italia”. La conseguenze sono significative: “Le imprese di questo genere – sottolinea Olivero – sono caratterizzate da sostenibilità ecologica, economica e sociale, che sono i pilastri di una buona agricoltura. Non solo, ma queste aziende danno lavoro, riducono i costi sanitari che lo Stato sostiene per le persone malate, sono inclusive perché spesso sottraggono a nuove tentazioni chi in precedenza aveva avuto problemi con dipendenze di vario genere. Ed è auspicabile che si sviluppino ancora di più gli agriasili, gli agrinido, le strutture in cui sono impegnati gli anziani”.
In apertura, il rettore Alessandro Ruggeri aveva sottolineato “la valenza scientifica coltivata da anni dall’ateneo viterbese in questo settore”, mentre il sindaco Leonardo Michelini (“ancora per poco” chiosa con un mezzo sorrisetto) aveva messo in evidenza che la Tuscia in agricoltura è la prima provincia del Lazio per occupazione e pil: “Da noi – rivendica con orgoglio – ci sono enogastronomia, paesaggio e cultura. Cioè le basi su cui si poggia lo sviluppo di un territorio”.