Normalmente Viterbopost tenta (con risultati altalenanti) di approfondire fatti e avvenimenti della Tuscia. Stavolta invece ci spingiamo un poco oltre, fino a Roma. Raccontando una storia semplice (ma allo stesso tempo incredibile) che, comunque, ha diversi aspetti legati al viterbese.
Elenchiamoli subito, quindi: i protagonisti della vicenda nel corso degli anni più volte sono capitati qui, all’ombra della Palanzana. Uno degli ex componenti della band, perché è di un gruppo musicale che si sta parlando, è Giacomo Anselmi. Mostruoso (nel senso buono) chitarrista locale. Ultimo: la scorsa estate la combriccola ha riempito piazza del Gesù, in occasione di uno dei concerti legati a Caffeina e JazzUp.
Detto ciò, veniamo al dunque.
Questo sabato, proprio a Roma, le Nuove tribù zulu festeggiano venticinque anni di attività. Un traguardo incredibile, negli ombrosi 2000, considerando la natura “alternativa” del progetto.
Correvano i primi ’90, e sulla lunga scia elettronica inglese nacquero in Capitale i Cyclone. Capelli ingelatinati, bomberini d’ordinanza, schitarrate di rottura. Anacronistici.
La faccenda durò poco (anche se qualcuno giura che in Germania e in Giappone i loro album girano ancora). Si passò ben presto alle Tribù. Ad un sound etno-folk. Agli archi sporchi, ai violini gitani. Alle sonorità della gente e della strada. Alla fusione globale.
I fratelli Camerini, Andrea (voce) e Paolo (contrabbasso), insieme al fratello non di sangue Roberto Berini (batteria), cercarono una via che potesse andare “oltre lo spazio dei locali, oltre Sanremo”. Scesero così a Campo de’ fiori, sotto la statua di Giordano Bruno, per intrecciare con sapienza polke e tarante, rock, punk e gypsy. Ne uscì un prodotto dalle tinte definite ma leggere. Ne uscì uno stile di vita. Un viaggio folle e assurdo, che ancora dura (nonostante tutto, nonostante i Dear Jack).
Per utilizzare il titolo di un’altra band romana borderline (i preziosi Tetes de bois), le Nuove tribù sono un “Mai di moda”. Una creatura fuori tempo e fuori luogo. Proprio per questo, però, sempre giusta e sempre presente e sempre radiosa.
In venticinque anni i ragazzacci hanno diffuso musica e dispensato sorrisi in tutto il mondo. Hanno reso felici centinaia di bambini coi loro colorati seminari. Hanno abbracciato l’India, mettendo in piedi la Nomadic orchestra (più di venti elementi, metà italiani e metà indiani). Hanno pitturato. Hanno scritto poesie, libri. Hanno suonato per tre persone e hanno riempito auditorium (Nuova Delhi) col medesimo entusiasmo. Hanno sempre risposto al telefono. Si sono sciolti (congelati) e riplasmati. Hanno salutato amici (come Anselmi, per tornare a Viterbo) e accolti nuovi membri. Hanno vissuto a Pondicherry per un quinquennio, studiando “carnatic”. Hanno prodotto dischi in solitaria (Traindeville, Berini). Hanno vinto premi (silenziosi). Hanno trovato e lasciato andar via l’amore. Hanno danzato con ballerine rom.
Hanno, per mettere i puntini sulle “i”, suonato in televisione prima di molti altri. A Roxy bar, per la precisione, da quel genio di Red Ronnie. Quando andare in tivù aveva un senso estetico ed effettivo, prima ancora che promozionale.
E queste, stringendo molto per questione di spazi, sono le Nuove tribù zulu. Quelle che sabato a Roma, all’auditorium di Santa Chiara, presentano il loro nuovo ep: “Namasté”. Album che apre un’inedita (ennesima) rotta. Un disco, in piena costruzione, che uscirà entro qualche mese.
Con loro, sul palco, la solita graditissima presenza di Ludovica Valori (polistrumentista che tutti vorrebbero avere). Il ritorno di Massimiliano Diotallevi al sax. E ancora Pejman Tadayon al setar e Sanjay Kansa Banik alle tabla. Più vari ed eventuali ospiti internazionali, che da sempre entrano e escono in e da questo fantastico pianeta.
La cornice è quella del “Festival mediterraneo dell’incontro”. E l’occasione è semplicemente unica. Consigliata.
Andateci.