Una settimana fa se ne è andato Luca De Filippo. Aveva 67 anni e per tanto, troppo tempo è stato semplicemente il figlio dell’immenso Eduardo. Un peso oneroso, difficile da sopportare che lui accettò pazientemente, rimanendo nell’ombra dello straordinario papà fino a quando visse. Poi, piano piano, ha potuto riscattarsi e imporsi: come attore e regista. Riprendendo pure alcune delle straordinarie opere di suo padre e riproponendole con il suo stile, la sua paciosa bonomia. Insomma le sue caratteristiche. Dice: ma se non avesse avuto quel papà, sarebbe stato ugualmente un ottimo interprete e regista? E chi lo sa? Forse avrebbe fatto il ferroviere o l’ingegnere o l’impiegato… Come può ognuno di noi immaginare una vita diversa da quella che ha realmente vissuto? Lo si può fare a vent’anni, forse, quando è il momento delle scelte, di optare per un corso di studi o per un altro, ma quando il papà è un mostro sacro del teatro italiano e mondiale (al quale basta solo il nome per essere universalmente conosciuto), non si può onestamente credere in qualcosa di diverso da una carriera sul palcoscenico. E Luca De Filippo è rimasto in un cono d’ombra a lungo. Lucentissimo, d’accordo, ma sempre di ombra si tratta. E invece avrebbe meritato molto di più. Perché aveva doti eccelse a prescindere dal cognome.
Ma essere “figli di…” è pesante per chiunque. C’è sempre il rischio di sentirsi dire che una carriera o un posto di responsabilità sono semplicemente dovuti alla bravura o all’influenza dei genitori, o di uno dei due. Per carità, è accaduto, accade e accadrà sempre, purtroppo: il nepotismo è malattia contagiosissima e non debellabile. Perché il potere logora chi non ce l’ha e perché chi ce l’ha cerca di perpetuarlo anche nella figliolanza, quand’anche non lo meriti. Cristian De Sica, tanto per dire, è un ottimo caratterista, ma niente a che vedere con Vittorio, il padre. Quello di “Miracolo a Milano”, una straordinaria poesia, triste e malinconica. E’ anche vero che don Vittorio ebbe fama e soldi dalla fortunatissima serie “Pane, amore e…”, ma questo è un altro discorso legato al gioco e alla frequentazione dei casinò che abbisognava di continue iniezioni di liquido.
Vivere tutta la vita con appiccicata addosso l’etichetta del “figlio di…” è un onore, per molti versi, ma anche un onere per tanti altri. Lucariello seppe affrancarsi e dimostrò che era bravo comunque. E probabilmente avrebbe fatto l’attore e il regista anche se si fosse chiamato Gennaro Esposito. Magari avrebbe preso un nome d’arte, ma la classe sarebbe rimasta immutata.
Buona domenica
Ps. Che nessuno si azzardi a dire che non aver vinto il titolo di capitale europea del volontariato sia una sconfitta per Viterbo. E nemmeno a pensarlo. Questa sì che sarebbe una sconfitta.
Aribuona domenica