Quanto pesa il cuore nelle scelte di un ragazzo di ventun’anni che ha deciso di giocare a basket? Tanto, anzi è probabilmente la molla determinante, quella che fa scattare il sì convinto. O anche il no deciso. Riccardo Rovere è uno dei (pochi) superstiti della Stella Azzurra della scorsa stagione, quella dell’esordio in serie B. Quando, durante l’estate, si pose il problema di scegliere dove giocare nel campionato successivo, i dubbi furono pochissimi, nessuno per la precisione.”Resto a Viterbo” comunicò Ricky (lo chiamano tutti così) alla sua società di provenienza che, peraltro, è ancora proprietaria del cartellino. La Virtus Siena (club satellite della più quotata Mens Sana: la ex Montepaschi, tanto per capirsi) ne prese atto ed eccolo qua ad indossare per il secondo anno consecutivo la maglietta biancostellata.
“Le cose – attacca Rovere – sono andate proprio così. Innanzitutto, la Virtus era retrocessa in C2 e quindi non se ne parlava proprio di rientrare a Siena. Ma altro ha influito sulle mie decisioni. Innanzitutto, la possibilità di continuare in una società serie, dove i dirigenti nella gestione e nell’organizzazione ci mettono cuore e cervello. Poi il fatto di poter continuare a vivere in una città piccola: a misura d’uomo, come si dice”. E questa è una parte importante della storia, ma c’è dell’altro: vero, Riccardo? “Beh, sì… C’è una persona alla quale mi sono legato una settimana dopo il mio arrivo qui a Viterbo e alla quale, è persino inutile aggiungerlo, sono particolarmente affezionato. Si chiama Elena Catalani, è di Bomarzo ed è pure lei un’atleta. Gioca a pallavolo, anche se quest’anno ha deciso di allenare la squadra under 16. Posso dire che stiamo bene insieme?”. Certo, ma non c’erano dubbi…
Insomma un insieme di fattori e di esigenze che si sono magicamente congiunti per produrre un risultato positivo. “Oggi – riprende Ricky – mi sento un giocatore migliore e una persona diversa. Con un pizzico di presunzione, dico che sono molto più maturo degli anni che ho. Molti pensano che vivere lontano da casa, magari senza l’assillo dei genitori, facendo un lavoro che è poi un gioco, sia facile. Non è così: si devono fare molti sacrifici, ma sono aspetti che bisogna mettere in conto quando si sceglie di fare il giocatore professionista. Per me l’uscita serale o la discoteca del sabato sono un sogno: è il giorno di riposo, è vero, ma ne approfitto per stare un po’ con Elena, poi si cena e si va a letto. Mi vien da ridere quando di fronte ai miei no, gli amici mi dicevano: ‘Tanto domani giochi alle 6…’. Il professionismo impone scelte che comunque accetto volentieri”.
Che cos’è il basket per Riccardo Rovere? “Una passione, infinita. Questa è la mia casa e lo sarà sempre. Fino a quando andrò in pensione. Sono andato via da Albenga quando avevo 15 anni; a Siena ho fatto tutta la trafila delle giovanili e contemporaneamente studiavo: i primi due anni al classico e gli altri tre al liceo psicopedagogico. Poi ho giocato un anno a Orvieto, sempre in B, e quindi Viterbo. Non riesco a vedere nel mio futuro qualcosa di diverso dalla pallacanestro. Non ho ancora le idee chiare: quando smetterò di giocare, potrei fare il preparatore atletico, il personal trainer. L’allenatore? Perché no, potrebbe pure accadere, ma lo dico a bassa voce altrimenti i compagni pensano che mi sono montato la testa… L’unica mia certezza oggi è che rimarrò in questo ambiente”.
Intanto, per portarsi avanti, Rovere si è iscritto qualche mese fa a scienze motorie a Roma. “Dopo il diploma – aggiunge – mi sono preso due anni di riflessione e poi ho scelto un indirizzo che, a noi atleti, consente qualche libertà in più, nel senso che l’obbligo di frequenza è un po’ meno pressante. E d’altronde se non capiscono loro i problemi che abbiamo noi che giochiamo per mestiere… I giorni in cui devo andare a lezione sono i più pesanti: sveglia all’alba, poi partenza in treno, a Roma fino alle 13 circa, poi rientro. Appena arrivo pranzo riscaldando alla meglio quello che i compagni mi hanno portato dal ristorante, un po’ di studio e quindi al palazzetto per l’allenamento. E la sera c’è solo il tempo per una telefonata con Elena, per sentire i miei e andare a dormire… Anche la mia ragazza si è iscritta al primo anno di scienze motorie, ma a Tor Vergata, e quindi mi dà una mano visto che più o meno studiamo le stesse cose”.
E a casa, su ad Albenga, che pensano? “Innanzitutto sono orgogliosi di quello che sto facendo. In passato venivano a vedermi spesso, adesso molto meno, perché ormai sono cresciuto… Quest’anno una sola volta: la partita con la Luiss. Passeranno il Natale qui con me: abbiamo giù in programma una gita a Civita di Bagnoregio”. Come è cambiato Riccardo Rovere? “Lo ripeto: mi sento un giocatore migliore, più completo. L’anno scorso, molte responsabilità ricadevano sulle spalle di Rossetti, adesso sono molto più divise e condivise. Il mio ruolo è quello del 3, cioè l’ala piccola, ma sto imparando a giocare sia da 4 che da 2. Con coach Umberto stiamo facendo un grande lavoro, ma ho tantissimo da migliorare soprattutto in fase difensiva”. E come è cambiata la Stella Azzurra? “E’ cambiata la squadra che ora è composta in gran parte da ragazzi che hanno più o meno la stessa età e con obiettivi diversi, ma chiari. La caratteristica che mi piace di più è la difesa: abbiamo capito che le partite si vincono non tanto con un canestro in più, quanto facendo segnare il meno possibile gli avversari. Ma più che una squadra, siamo un gruppo. E questo conta e pesa molto di più”. Questione di cuore, appunto.