International development, sviluppo internazionale. Quando si parla di economia (quando si parla di economia italiana, quando si parla di ecomomia laziale, quando si parla di economia viterbese) spesso è più un auspicio che un obiettivo.
Eppure, come dice opportunamente il professor Giuseppe Garofalo, ordinario di Economia all’università della Tuscia, ”non pretendiamo che le cose cambino se facciamo sempre la stessa cosa”. La citazione è di Albert Einstein, e ci stava a pennello in questo pomeriggio di Federlazio, per presentare appunto International Development, il nuovo progetto dell’associazione che rappresenta le piccole e medie imprese per spingere, appunto, quest’ultime a puntare sull’export.
”Perché in questi sette anni di buio – ricorda il direttore generale di Federlazio, Luciano Mocci, tornato per un giorno nella Tuscia, dove ha lavorato per 14 anni – le uniche aziende che hanno respirato sono quelle che hanno saputo esportare all’estero. Anche perché la domanda interna, in questo lasso di tempo, è stata zero, o quasi”.
Insieme ai due citati, ci sono i padroni di casa: il presidente Gianni Calisti e il direttore Giuseppe Crea. In platea, la prorettrice dell’università, Annamaria Fausto, a portare i saluti del rettore Ruggieri, e a sottolinare: ”Teniamo particolarmente al rapporto con il territorio e con le imprese. Sul tema dell’informatizzazione, poi, ci confrontiamo quotidianamente con tante altre realtà europee e mondiali, e ci investiamo. E quello che produce l’università, a livello non solo di formazione, ma anche di rapporti, è giusto che ricada sul territorio appunto”. Crea conferma: ”Il rapporto tra Università e Federlazio va avanti dalla notte dei tempi”.
Ma veniamo ai contenuti. Il professor Garofalo ha fatto il punto della situazione (sfornando una lunga serie di dati) prima sul commercio mondiale, poi sull’export in generale, quindi su quello italiano. Brevemente: l’Italia funziona quando esporta le quattro A (abbigliamento, arredamento di qualità e design, agroalimentare e automazione meccanica). Settori in cui è sempre stata specializzata e che le valgono l’undicesimo posto nella classifica mondiale, guidata da Cina e Usa. Il Lazio, invece, va forte nel farmaceutico, nel tabacco, nei prodotti derivati dalla derivazione del petrolio, della tecnologia e nei prodotti chimici. Vende soprattutto negli Stati Uniti e in Giappone, mercati di riferimento. ”Ma non è normale – fa notare Mocci, che dal suo ruolo romano ha un panorama completo – che la regione col secondo Pil d’Italia dopo la Lombardia esporti molto, molto, molto poco: c’è qualcosa che non quadra”.
E la Tuscia? I dati di Garofalo, attinti anche dalle preziose e puntuali analisi congiunturali di Federlazio, sono spietati: ”Roma esporta il 53 per cento complessivo del Lazio, Latina e Frosinone si dividono un 20 per cento abbandonante ciascuno. Viterbo è penultima, con 1.9 per cento delle esportazioni, di pochissimo avanti a Rieti. Bene, cioè male.
E veniamo ad Italian Development, il progetto presentato nella sede di via Sacchi. ”Come associazione, ci siamo sempre chiesti cosa possiamo fare per incentivare l’export. Col passare dei tempi, con l’ampliamento dei mercati, il progressivo abbattimento delle distanze e delle fronterie, ci siamo adattati”, dice Crea. E se negli anni Novanta c’era Eurosmes, una rete di 12 Paesi per mettere le rispettive piccole e medie imprese in rete (in seguito anche grazie al contratto di rete, strumento europeo approvato, come al solito in ritardo, anche dall’Italia), ecco Italian Development.
”Che ha l’obiettivo di accompagnare le aziende nei processi di internalizzazione – spiegano i dirigenti di Federlazio – Come? Mettendo a disposizione dei servizi: l’analisi aziendale, quella dei prodotti e quella dei mercati esteri e dunque della concorrenza. Ma anche la definizione dei migliori canali locali per la distrizuone, fino all’individuazione di una strategia, anche con specifici accordi commerciali”. Insomma, ad una piccola e media impresa che vuole cimentarsi su un palcoscenico più grande, non basta più fare l’incontro giusto nella fiera di settore, come accadeva venti o trent’anni fa. Servono canali già scavati, e condivisi. A questo serve Italian Development, ma non solo a questo. Perché oltre ad esportare i suoi prodotti, una società ha anche bisogno di approvvigionarsi delle materie prime e dei semilavorati, settori in cui l’Italia è storicamente carente, per non dire priva.
Ecco allora il doppio senso di ID: vendere meglio agli altri mercati, acquistare da altri mercati ancora ciò che serve per produrre. Possibilmente risparmiando e senza beccare fregature. E chissà che anche così non si riesca a lasciare la crisi sempre più lontana, in fondo ad una tortuosa strada di montagna già percorsa, e che sia arrivata finalmente la discesa.