Poi dice perché si chiama happy hour. Martedì sera, rinomato bar appena fuori le mura. Affollato di ragazzi e ragazze. Musica di circostanza. Arrivano tre giovani, ma poi neanche troppo giovani. Non sono matricole universitarie, magari studenti fuori corso. Vestiti normalmente. Ordinano tre vini rossi e si piazzano sulla veranda esterna.
Il barista è impeccabile. Versa il Nero d’Avola nei bicchieri, accompagna il tutto con qualche stuzzichino, e serve al tavolo. Loro ringraziano, fanno un brindisi e continuano a chiacchierare.
Passano appena dieci minuti. E’ un attimo. I tre scattano all’unisono, come direbbe Verdone, si alzano dalle sedie e schizzano via. I bicchieri sono vuoti alla goccia, i piatti degli aperitivi puliti. Dove saranno andati? Semplice: sono scappati. Avevano la macchina parcheggiata dietro l’angolo, sono saliti e hanno dato gas. Scomparsi. Senza pagare il conto.
Dice: ma non sarebbe stato meglio farli pagare prima? Certo che sì, in molti locali si fa così. Però questa è Viterbo, è (meglio: era) una tranquilla città di provincia. Dove tutti si conoscono, o almeno si fidano del prossimo. Il barman ha fatto come al solito: si è semplicemente fidato. Dodici euro per tre bicchieri, chi si sognerebbe di bruciarli? Siamo persone civili. Educate. Si ha rispetto del prossimo e della gente che lavora.
Invece no. Invece ci sono ancora in giro persone che si divertono a fare il fugone, come si chiamava da ragazzini. Per provare chissà qualche brivido, chissà quale scossa di trasgressione. Per sentirsi “sgamati”. A trent’anni d’età, mica a quattordici. Complimenti vivissimi.
Per la cronaca: il barista ha chiamato la polizia, che è intervenuta subito e ha ascoltato la storia. Magari non li troveranno, e in fondo non hanno commesso neanche un reato gravissimo. Però se provassero un po’ di vergogna non ci sarebbe niente di male.