C’erano una volta due tedeschi, un italiano e un argentino che decisero di scrivere un’opera teatrale sull’annoso problema della sicurezza e sul controllo che ogni paese attua nei confronti dei propri cittadini. Quattro teste molto diverse: Marius von Mayenburg di Berlino, che ragiona sul teatro drammatico e teatro postdrammatico in Germania, Albert Ostermaier di Monaco, classico poeta drammaturgo, Rafael Spregelburd di Buenos Aires, sperimentatore geniale, e Gian Maria Cervo, Napoli, autore, girovago, amante di tutte le forme di teatro. Un pezzo ciascuno, ognuno con la loro formazione ed idee, hanno creato un pièce partendo da un fatto di cronaca accaduto negli Stati Uniti 2002. La stampa dell’epoca, li battezzò i “Cecchini della circonvallazione”: Due uomini, un anno dopo il crollo delle torri, iniziarono a uccidere delle persone in maniera casuale, gettando, così, la zona attorno alla capitale di Washington nel panico. Come unico indizio lasciarono una carta dei tarocchi in un parco, con su scritto “Call me God”.In poche parole, si sostituivano all’operato di Dio. Per questi delitti furono poi, arrestati due afroamericani. Furono arrestati malmenati e giustiziati.
Si parte da qui. Si parte sempre dalla realtà e si analizzano, poi, migliaia di nuclei narrativi che una storia porta in sé. Si danno voce a più di cinquanta personaggi: vittime, possibili colpevoli e carnefici. Ognuno viene sviscerato e, con poche battute, rivelato nella sua peculiarità. Le vittime conducevano una vita normale. Non avevano nessun motivo per essere uccisi così, a sangue freddo, in mezzo alla strada. Lo spettatore si immedesima nei loro racconti e sobbalza quando cadono a terra trafitti dal proiettile. I colpevoli, intanto fanno il mestiere di Dio e, a caso, senza distinzioni tra padri di famiglia, giovani ragazze e madri uccidono provocando il panico nella città. La gente non esce più in strada e c’è il dubbio atroce che chiunque possa essere l’assassino.
I media cercano, annaspano, si sostituiscono persino alla polizia pur di realizzare uno scoop. Chi ha la fortuna di sopravvivere agli attentati viene poi coinvolto nel business della tv del dolore, dove si fa leva sui sentimenti e il pietismo per alzare gli ascolti. Gli autori della pièce allargano le possibilità dei possibili colpevoli con strutturati complotti, da parte della Cia, per mantenere il monopolio sul petrolio, o puntando il dito sulla Jihad Islamica.
Il testo di questa opera teatrale è pregno di spunti di riflessioni e e rivelazioni. L’analisi attuata sulle crepe di un mondo-capitalistico, che a tutti i costi vuole rimanere integro e senza macchia, è geniale. Questa piece fu portata in scena per la prima volta nel 2012 al Teatro Argentina di Roma, per poi approdare a Vienna e a Monaco con regia di Mayenburg. Ora nel, 2015, il testo viene introdotto in “Quartieri dell’Arte”, festival di teatro ventennale a cura di Gian Maria Cervo, e proposto alla popolazione in lingua italiana. Siamo all’ex Cinema Corso di Viterbo, stabile in rovina che racchiude gli spettatori in un’ambiente spoglio ma ricco di storia. Gli attori, alcuni noti, altri allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia, ce la mettono tutta per mantenere desta l’attenzione del pubblico. Presentano una cinquantina di personaggi e rendono reali ragioni e dolori che li contraddistinguono. Fanno quello che possono, caricandosi sulle spalle scelte registiche non del tutto azzeccate. Si inizia bene: una bella commistione tra parola, filmati, musiche e si finisce con fretta e incuria. Qualche spettatore si addormenta un altro continua a fissare l’ora sul cellulare. Tante cose costipate. Tante cose da voler dire, ma se non si hanno le idee e le forza per dirle, forse sarebbe meglio tacere o tagliare. Si dice che questo spettacolo abbia fatto furore in Germania. Certo. Il testo è bellissimo. Senza dubbio lo è. Lo spettacolo di Monaco, un piacere per gli occhi, pieno di tecnologia e colpi di scena. Questo è solo un primo studio, in Italia. Ma cosa vuol dire? Lo spettatore deve integrare quello che si vede con sogni tedeschi? Quello che si è visto era spoglio e male organizzato. L’emulazione nei confronti del grande spettacolo del 2012 non è riuscita. Meglio fare i conti con le proprie forze e mezzi e cercare di carpire la sostanza, il cuore del messaggio in modo che il pubblico capisca, lì in quel momento, e rimanga soddisfatto e pieno di quello che ha ascoltato.