Ogni mattina Jim Yardley si alza (proprio come il leone e la gazzella), e puntualmente, salendo sul bus che lo porta a lavoro, incappa nella stessa foto.
Così, daje oggi e daje domani (direbbero dalle sue parti), decide di scriverci un pezzo su quello scatto. Ritiene che sia il caso di approfondire come mai il Comune di Roma abbia voluto puntare forte sulla valorizzazione di quel paesetto anomalo. Immortalato e proposto ai turisti come fosse “il meglio di”.
Il risultato? Semplice. Ieri l’altro il giornalista americano, penna di punta del New York Times (non il Corriere dei piccoli) ha tirato giù un seimila battute su Civita di Bagnoregio. Per la cronaca, 6000 battute sono un fracco, fidatevi.
Il titolo è abbastanza inquietante: “I turisti riscoprono questo borgo, ma la natura ha altri progetti”. Non il massimo dell’ottimismo, insomma. Anche se poi segue un’analisi praticamente perfetta.
Yardley parte (da vecchio volpone) dalla storia di Sandro Rocchi. Uno che ci abitava, a Civita. E che è scappato negli anni ’70 perché non trovava lavoro. Ora invece Rocchi la sua Civita se la gode, eccome. Raccogliendo funghi e tartufi da barattare con pasti squisiti nel ristorante che gestisce il figlio. Uno dei tanti, tantissimi.
Tutto questo per raccontare cosa? “Che in 2500 anni di storia ne sono successe parecchie in loco – prosegue l’articolo – prima la roccaforte, poi l’abbandono, poi il ritorno e ora il boom mediatico”.
E già. Senza dubbio è stata proprio la diffusione lampo su scala mondiale a scomodare il Times. L’inviato a stelle e strisce però non si abbandona al solo lato economico della faccenda, ma decide di andare oltre. “Tutto questo movimento, questa promozione sui social, questi pellegrini – spiega – nonostante il paese sia a rischio di sgretolarsi definitivamente. La Regione Lazio ed i politici locali stanno pensando ad un piano per conservarlo, ma non sarà facile. La natura delle rocce ha portato, per via delle piogge, ad una erosione incredibile. Il paesaggio circostante, i Calanchi, varia ad ogni acquazzone. Si è chiesto aiuto anche all’Unesco attraverso la classica candidatura”.
La chiusura, infine, è agrodolce. Ma conferma che Yardley sia venuto in terra di Tuscia col proposito di ragionare, e non di copia-e-incollare come molti suoi altri colleghi han fatto e faranno sempre. “La chiamano ‘La città che muore’, the town that is dying – conclude – ma nonostante il rischio sia alto, qui di vita ce ne sta parecchia. Anzi. Proprio questa delicatezza e il fatto che presto non potremmo più visitarla, probabilmente son serviti da volano turistico”.