Il 21 settembre ricorre il novantesimo anniversario della nascita di Alfio Pannega, scomparso il 30 aprile del 2010. Pubblichiamo un ricordo di nostro lettore, P. A.
Come molti miei coetanei conobbi Alfio frequentando il Centro sociale Valle Faul, anche se come tutti i viterbesi conoscevo per interposta persona certi aneddoti ormai parte del folklore che certo non gli rendevano giustizia.
Per molti ragazzi che venivano da una Viterbo ben diversa da quella che conosceva lui, fu un incontro importante ed una sorpresa: Alfio non era quello delle battute e dei racconti per sentito dire, di aneddoti pittoreschi e memorie parassite di chi parla senza sapere; Alfio era una persona che ti dava ospitalità ed amicizia prima di chiederti chi fossi.
Nel 1993 ci fu l’occupazione dell’ex-gazometro, dove Alfio abitava, in quella Valle Faul che egli amava e ricordava come il polmone agricolo di Viterbo, quella propaggine intramuraria della splendide terre del Bulicame che Alfio conosceva e chiamava casa. Trovò del tutto naturale unirsi a quel gruppo di giovani che volevano prendersi un pezzo di città condannato all’abbandono ed all’incuria, o peggio a future speculazioni di affaristi senza scrupoli. La valle era sua e dei viterbesi che volevano viverla, goderne il verde e la splendida vista su quelle architetture che Alfio aveva osservato per anni, dal basso in alto perché erano i palazzi dei potenti e lui in fondo, nel punto più basso di Viterbo quasi a rappresentare questa differenza.
Tra i giovani del “Centro” Alfio visse una rinascita e fu sottratto ad un imbarazzante oblio o peggio ad una reificazione monumentale, o peggio ancora ad una elezione a simbolo negativo di una Viterbo che si voleva estinta: dentro la Viterbo del cemento e delle vetrine, fuori la Viterbo agricola ed artigiana.
Ebbe così più volte modo di raccontare la propria storia, storia che molti cittadini credevano di sapere, banalizzandola, storia che non avevano mai voluto ascoltare preferendo liquidare quel signore che con la sua logora dignità rappresentava un promemoria vivente del loro imbarazzante benessere: liquidarlo con un’elemosina o con un insulto.
Molte volte lo abbiamo ascoltato per ore attorno ad un tavolo raccontarci una Viterbo che per noi era inimmaginabile, e raccontarci la sua storia inscindibile dalla città di cui è stato uno dei più illustri abitanti. Studenti svogliati, restavamo stupiti da quei versi danteschi che citava a memoria dopo decenni e che a noi non volevano entrare in testa, o da quei versi suoi che sgorgavano in lui con naturalezza e con la sapienza del poeta popolare che era, quelle ottave in endecasillabi con le quali amava cantare la natura che lo aveva accolto, l’amicizia, la dolorosa bellezza della vita, il lavoro, la sua città.
Alfio era nato il 21 settembre del 1925 da “Caterina” (il cui vero nome era Giovanna) altra figura molto nota della Viterbo che fu, dalla vita difficile, passata nel tritacarne dello stereotipo e dell’oltraggio, feticcio su cui spesso accanirsi per rinforzare la percezione della propria presunta civilizzazione. Quella Caterina immortalata in un celebre scatto degli anni sessanta del fotografo Mario Onofri, amico di Alfio, scomparso di recente: uno scatto di profondissima intensità neorealista, pasoliniana verrebbe da dire.
In gioventù fu allontanato dalla madre, visse in collegio, iniziò a sperimentare la durezza della vita ai margini di una società viterbese che iniziava il suo faticoso ingresso nella cosiddetta modernità. È in quei pochi anni di scuola che nasce il suo amore per la grande letteratura, per Dante soprattutto, che rimarrà sempre nella sua memoria ben più di quelle preghiere che ascoltava sempre dalla bocca di persone ricche e ben nutrite e ben vestite e ben poco pie.
Sperimenta lunghi anni di lavoro durissimo ma sempre fiero, mai arrendendosi a cercare la strada facile, guadagnandosi ogni boccone di pane, ripagando con l’amicizia e con l’onestà anche chi lo sfruttava o lo derideva.
Vive da sempre dei materiali di risulta della società del consumo e dello spreco che stava integrando anche Viterbo: artigiano, contadino, manovale, uomo di fatica di quella fatica che nessuno voleva fare; ricicla incessantemente gli scarti della Viterbo che commercia e costruisce: cartone, rame, tessuto, tesori per chi come lui sa vivere in maniera frugale e l’unico lusso che desidera per se è la compagnia dei suoi amici animali, del cielo, dei versi suoi e di quei poeti che non lo abbandonano e lo sostengono nei momenti più difficili, come fecero con Primo Levi nel campo di sterminio.
Le mura di Viterbo il suo erbario, il duomo il panorama dalla sua finestra: le grotte della zona in cui ha vissuto a lungo sia con la madre che da solo.
Tra coloro che lo avvicinano qualcuno che gli dà un po’ di lavoro – più per la carità e per il relativo prestigio che per amicizia – ma qualcuno lo ascolta, qualcuno va oltre i racconti ascoltati a casa che ne fanno persino una specie di “uomo nero”, come quegli zingari che per anni avrebbero dovuto rubare i bambini, come quei migranti che oggi vengono additati come nemico: abbiamo delocalizzato anche gli spauracchi. Alfio invece è in questi anni che matura la cultura dell’accoglienza e della condivisione del pane: con gli animali, con gli uomini che hanno meno di lui e anche con quelli che hanno di più; “omnia sunt communia”, lo sa bene chi ha vissuto a lungo sulla terra e della terra che non ci sono recinti, che tutto ciò che è sulla terra è di tutti quelli che la abitano, che ne hanno bisogno. Alfio spezzava il suo pane con te, era un compagno: se eri con lui quello che era suo era tuo alla faccia della civilizzazione, come in Moby Dick quando il selvaggio Quiqueg divide subito tutti i suoi averi con il civilizzato Ismaele che ci resta di stucco.
Anni lunghi e duri, in cui molti conoscono quell’Alfio non vero che era costretto a mostrarsi nella città bene, quando avrebbe potuto ricordare a molti dei bei cittadini che lo trattavano con condiscendenza da dove venivano le loro fortune, chi aveva sfornato il loro pane, ma che invece preferiva stemperare quella tensione con il comportamento giocoso e persino con la battuta triviale; come il paesano che si toglie il cappello davanti al signore e si finge un sempliciotto ma la sa lunga, ah se la sa lunga; in questo consisteva l’essere popolano di Alfio, essere uno del popolo che rivendica questa sua appartenenza dinnanzi ai signori ai quali non si sente assolutamente subalterno, inferiore; anche se la loro potenza militare potrebbe schiacciarlo lui non si piega, sa benissimo da che parte stare.
Ci raccontava queste storie a metà degli anni Novanta, le raccontava a noi che ci avvicinavamo alla politica, che pensavamo di aver capito tutto del mondo, che al “Centro Sociale” credevamo avremmo trovato un covo di rivoluzionari incalliti ed invece avevamo conosciuto un gruppo di persone che volevano star bene e fare da sé la propria vita, riunendosi attorno ad un decano presentatosi spontaneamente e con le idee ben più chiare di tutti noi.
Non un nonno putativo od un padre sostitutivo, ma un amico tra pari; in una società gerontofoba che trova mille stratagemmi per obliterare la senilità, Alfio era vecchio di una vecchiaia naturale, per quanto aumentata dalla fatica, dalla brutalità, dall’emarginazione; ma il rispetto Alfio se lo era guadagnato non come semplice fatto anagrafico, quasi che non possano esserci persone pessime ed anziane; Alfio il rispetto se lo guadagnava dandotene per primo e senza voler niente in cambio: ti dava da mangiare, da bere, le sue sigarette erano le tue e così la sua casa. E parlava e raccontava, leggeva il giornale, ascoltava i notiziari, era ancora curioso di questo mondo che amava e di cui si sentiva, fin dove arrivavano le sue braccia e le sue gambe, responsabile; e chiedeva a te quello che facevi, come la pensavi, cosa desideravi; dopo averti detto come erano i suoi tempi voleva sapere tutto dei tuoi.
Come quelle culture che misurano la propria terra camminando, la terra di Alfio era fin dove lo portavano le sue gambe, ma la sua patria era il mondo intero come potevamo imparare ogni volta che al Centro ci si confrontava con realtà molto diverse dalle nostre ma in fondo simili, tutti desiderosi come eravamo di stare tra di noi, di sostenerci, di imparare reciprocamente; ed in questo avevamo trovato in Alfio un amico ed un maestro, anche se a questa parola si sarebbe schermito con una parolaccia ed una risata delle sue.
Conoscevamo così la sua lucidità e la sua chiara visione del suo pezzo di mondo: in tutti quegli anni aveva imparato molto bene a distinguere il bene dal male, sapere quali fossero le ferite del mondo da guarire, le cose di cui prendersi cura, le cose fatte e quelle da fare e chi le aveva fatte.
Questa vita non lo aveva chiuso in se stesso, ma anzi lo spingeva ancora di più ad aprirsi all’altro: per quanto possibile “saliva” ancora in centro la mattina e girava per le strade che amava: molte persone lo conoscevano, soprattutto molti commercianti del centro; molti lo sostenevano, molti aspettavano la sua poesia natalizia, molti pensavano di conoscerlo, molti desideravano mostrarsi intimi col cittadino più illustre, salvo poi scoprire che egli non era affatto come si aspettavano: ogni occasione di incontro per Alfio era utile per dire parole buone, per invitare le persone a lottare per gli ultimi, per celebrare la vita coi versi o col vino e soprattutto per portare avanti una delle molte battaglie che Alfio conduceva non per se ma per gli altri.
Alfio che salvò per molti anni la Valle di Faul dal degrado e dalla speculazione (e cosa penserebbe del mare di cemento che da qualche tempo cola nel fu polmone verde cittadino, e cosa direbbe del bisogno di ascensori che la città sembra sentire negli ultimi tempi, lui che partiva col suo carretto per interminabili fatiche).
Alfio che si è sempre battuto perché chi ha bisogno venga accolto, aprendo lui per primo le porte di casa sua a chi era scappato dal proprio paese, a chi cercava un piatto di minestra ,una parola di conforto.
Alfio che fu tra i primi ad opporsi alla costruzione dell’aeroporto nella valle del Bulicame, perché avrebbe ucciso quella terra bellissima, vera risorsa per la città, luogo unico che tutti ci invidiano. Non capiva cosa c’entrasse un mare di cemento e di asfalto in quelle terre fumanti piene di vita e di poesia.
Sin dall’inizio della vicenda volle essere tra i promotori di una campagna di informazione e di tutela di quelle terre che sempre ci aveva raccontato e sulle quali, col trasferimento del Centro Sociale, aveva voluto andare a vivere di persona. Mi ricordo quell’orazione durante la manifestazione del 2008 al Bulicame, proprio davanti a quelle pozze fumanti: fu un punto di svolta in quella vicenda, fu il momento in cui buona parte della cittadinanza si ricordò del bisogno di lentezza, di condivisione, di amore per la terra e non di velocità, profitto, devastazione.
Quando poi fu pubblicato il “suo” libro fu felicissimo e la città fu sorpresa e felice di ritrovare il suo abitante più illustre: quegli incontri, quella possibilità di ascoltare le sue parole, quella riscoperta della possibilità di ritornare ad incontrarci e parlarci, invece che sfrecciarci l’uno davanti all’altro con l’auto mentre andiamo in qualche cattedrale di cemento, fu un momento molto intenso che a lui donò autentica gioia, quella gioia che si prova quando si dà; Alfio amava e rispettava i libri (alcuni dei quali custodiva gelosamente), era un promotore della cultura quella buona, quella che unisce, e vedere un libro col suo nome e le sue poesie fu motivo di felicità perché sentiva di aver lasciato qualcosa al mondo, alla comunità di cui era parte. Per molti cittadini fu una sorpresa conoscerlo o riscoprirlo e conoscerne per la prima volta la profondità e l’intelligenza ben oltre il personaggio a cui si è voluto ridurlo per stemperarne una forza politica devastante.
E quella volta che gli amici artisti portarono in pellegrinaggio al “duomo” il suo ritratto, a dare un messaggio di pace e di amore per la terra. E le fotografie, le riprese video, i ritratti: Alfio si prestava ma non capiva perché molti dei suoi amici ci tenessero così tanto ad avere un suo ricordo, preferiva essere ascoltato ed ascoltare: un’occasione per stare insieme è meglio di un santino.
Alfio che accettò di farsi testimone di un’ultima battaglia per il diritto di tutti alla casa, lui che ormai non ne aveva più bisogno avendo scelto di vivere con i ragazzi del Centro Sociale, con cui da tanti anni condivideva un’esperienza di accoglienza ed amicizia, di lotte – che chiamava famiglia. Si accorse bene ed accettò di correre il rischio di essere sfruttato per fini politici da chi voleva farsi bello con la carità, purché questo gli permettesse di essere d’aiuto a chi era meno fortunato e felice di lui. Si rendeva certo conto del fatto che il suo volto sui manifesti (“Emergenza casa”) fosse parte delle solite faccende elettorali di cui da anni conosceva bene ogni intrallazzo, ma pensava potesse comunque essere utile a qualcuno. La capiva bene la politica Alfio, e delle amministrazioni viterbesi sapeva vita morte e miracoli, così come delle strade: sapeva ogni metro di cemento da dove venisse e chi ce lo avesse messo e ti diceva quale meraviglia fosse stata abbattuta per mettercelo, quale campo di erbe buone, quale misterioso rudere, quale luogo dove la gente poteva incontrarsi. Non aveva mai fatto un mistero di essere stato comunista per molti anni ed iscritto al partito, quando sapeva che quella era la parte da cui stare perché in qualche modo si sarebbe comunque presa cura dei più deboli, ma non si faceva certo illusioni: sentirlo raccontare con i suoi modi la politica era sempre una lezione, una di quelle fatte dalla strada e non dalle cattedre tirate a lustro.
Ma Alfio ci era già finito su un manifesto, quando anni fa una delle irriverenti provocazioni del “Centro” sfornò un volantino che ai due candidati sindaco proponeva l’alternativa: “Essi serio, vota Alfio sindaco!” e c’era una sua foto sorridente con un mazzo di fiori. Una battuta, certo, ma era in lui che la Viterbo migliore avrebbe dovuto e potuto riconoscersi, in una persona attenta alla cura di tutti, uomini ed animali.
Alfio che ricevette infine un riconoscimento dalle istituzioni locali, una targa che lui rifiutò durante un intenso incontro con molti cittadini e molti studenti giovani: non poteva appenderla in nessuna casa quella targa, disse ben conoscendo il potere che con una mano dà e con l’altra toglie; case, pane, lavoro e non premi, che quelli non si possono dar da mangiare ai figli. Fu un momento incredibile: nessuna paura per i signori, nessuna subalternità ai dottori: solo la voglia di coinvolgere quella platea di ragazzi poco più giovani di quanto lo ero io quando lo conobbi.
Alfio non perdeva mai un’occasione per dire quello che pensava e per essere di incoraggiamento.
Questo l’Alfio che abbiamo conosciuto: lontano dal personaggio, dalla maschera, mai arreso, mai sconfitto, sempre con il desiderio e la forza di aiutare l’altro.
E ci incoraggia anche oggi quando pensiamo a lui, ci unisce, ci fa sentire meno soli e ci sostiene il suo esempio di onestà e di impegno nella lotta in cui si batteva lui per primo: per la terra e per tutti gli uomini. E non occorre solo che la città lo ricordi (con iniziative pubbliche o con la dedica di una via) ma occorre che si prosegua la sua, la nostra, battaglia.
P. A.