Sono, rispettivamente, il diavolo e l’acqua santa. Il giorno e la notte. Il lato A e quello B. Bene e male. Virtù e vizio. Freddo e caldo. Bianco e nero. Piacere e dolore. E via discorrendo, sempre sulla scala dei contrari.
Sono opposti, pertanto. Seppur legati. E proprio per questo vanno difesi e tutelati. Proprio per questo, Viterbo ha bisogno di non perderli.
Da un lato ci sta Caffeina. Dall’altro il Tuscia in jazz. Le due manifestazioni più differenti che si possano immaginare. La prima è invadente fino alla goduria. Magari (la goduria) non della città intera, ma sicuramente dei commercianti che si trovano lungo il tracciato. La seconda invece è estremamente non invasiva. Arriva in punta di piedi e se ne va nello stesso modo, pulendo pure le ultime tracce.
Caffeina è un super-contenitore-nazional-popolare. Dentro ci stanno dal calcinculo alle eterne discussioni sui “pro e contro”. I numeri però, alla fine, son sempre mostruosi. Sicuramente meno di quelli dichiarati (anche un po’ per provocare). Sicuramente legati forte allo struscio cittadino. Sicuramente più pomposi fuori che dentro le varie presentazioni. Ma, non si discute, dopo e prima nel capoluogo regna la morte. E poco importa che trequarti degli ospiti siano macchiette o presunte tali.
Il Tuscia in jazz invece è da serata secca. Teatro aperto, e mai che si trovi un posto se non si è preso il biglietto nei giorni precedenti. Musicisti di fama internazionale. Professori altrettanto noti. Per non parlare poi dell’aspetto ospitalità (e quindi dell’incoming), che si contraddistingue per un sold-out globale delle strutture ricettive, in toto.
E poi c’è da valutare il lato “pionieristico”. Caffeina porta il nome di Viterbo a Pienza, che normalmente dopo Pitigliano nessuno saprebbe collocarci sulla cartina. Il Tuscia in jazz dirige addirittura il festival di La Spezia. Il più importante e longevo d’Italia.
Ancora, questioni tecniche. I direttori Baffo & Rossi guidano una macchina enorme. Composta da tonnellate di volontari, una Fondazione alle spalle, uffici stampa, squadre di elettricisti e via dicendo. Il direttore (anzi, ‘o direttore) Italo Leali invece ha dalla sua Mirko Gerunzi “nostro-signore-dei-cavi”, Luca Ciccioni alla comunicazione, Enrico Miannulli a coordinare i corsi, i genitori in cucina l’estate, e poco altro.
Ecco. Tutto questo parallelismo per dire cosa? Che la crisi morde. Che le risorse sono sempre meno. Che la programmazione amministrativa è determinante. Che, per quanto di opposto già spiegato sopra, Caffeina ha apertamente annunciato che così non ce la fa ad andare avanti, il Tuscia in jazz invece no (ma chi lo sa? Questi son sempre silenziosi).
Una città (che non vuol dire il Comune, o solo esso, ma una comunità) lungimirante dovrebbe pertanto trovare il verso di supportare le due sue creature più brillanti. In modi diversi, è evidente. Ma la volontà ci deve essere.
Il rischio? Il rischio è il solito. Quello di veder migrare i migliori festival che si hanno. Perdendo molto. Di faccia, di reputazione. E, soprattutto, di crescita. Culturale, turistica, economica.