Confesso che il gioco del calcio mi ha rapito sin da bambino. Quando, frequentando ancora le elementari, ero protagonista di partite in parrocchia che cominciavano alle tre del pomeriggio e finivano alle otto di sera. E mi facevano tornare a casa, spesso, con i calzoni sgarrati e le scarpe rotte, per la felicità di mia madre, che non me le risparmiava di certo.
Erano quelli i primi anni in cui il calcio appariva anche in televisione (a piccole dosi, non come adesso) e a me piaceva tanto Gianni Rivera, astro nascente del momento. Così, cominciai a seguire il Milan. Ricordo la finale di Coppa dei campioni di Londra del 1963, vinta dai rossoneri contro il Benfica di Eusebio, e quella di Madrid del 1969, conquistata contro l’Ajax di Cruijff. La coppia Rivera-Prati (ricordate Pierino la peste?) insomma, mi ispirava simpatia e ammirazione, facendo borbottare spesso mio padre, che aveva una certa predilezione (eufemismo) per la Roma, il quale mi ripeteva spesso: “Tu tifi per il Milan, ma se vai a Milano la prima cosa che ti dicono è terùn”.
E in effetti il mio vecchio non aveva tutti i torti. Perché il calcio è (o dovrebbe essere) una competizione strettamente legata ai territori. Lo è nei tornei nazionali, dove infatti le compagini in gara rappresentano le città; lo è in quelli internazionali, dove a gareggiare sono le nazioni; lo è perfino nei tornei aziendali, o stracittadini. O nella classica delle classiche Scapoli-Ammogliati. Tifare per una squadra insomma, vuol dire sentirsi parte integrante del territorio e della comunità cui si appartiene e condividerne gioie e dolori. Quando si vince e quando si perde. E fu proprio sulla base di questi ragionamenti che, da adolescente, abbracciai il tifo per la Roma. Del resto, nativo di Viterbo e con genitori romani, avrei avuto un’unica alternativa: quella della Lazio (che scartai a priori).
Frequentando però le scuole superiori, dove il calcio era argomento di discussione primario tra un’ora di latino e una di filosofia, mi accorsi di essere la classica mosca bianca (o pecora nera, fate voi). Giacché tutti gli altri miei compagni avevano altri idoli: l’Inter, il Milan, ma soprattutto la Juve. Che già all’epoca dava ampia dimostrazione della sua potenza economica (del resto, alle sue spalle c’era la Fiat) ingurgitando le star dell’epoca, strappandole spesso a squadre che avevano bisogno di soldi per sopravvivere.
A tale proposito ricordo ancora lo sconcerto che mi pervase quando, nel 1970, il nuovo direttore generale bianconero Italo Allodi portò via proprio alla Roma Fabio Capello, Luciano Spinosi e Fausto Landini, rifilandogli un “bollito” Luis Del Sol (35 anni), Gianfranco Zigoni e Roberto Vieri e, ovviamente, un bel po’ di contanti. Ma la Roma, si sa, aveva bisogno di soldi e la Juve poteva pagare. Così, addio sogni di gloria.
Tornando però al tifo dei miei coetanei, la domande era e rimaneva: ma perché uno che è nato e vive a Viterbo tifa per la Juve, per l’Inter o per il Milan? E perché, guarda caso, non c’è nessuno che tifa per il Palermo? Non ci volle molto per trovare la risposta, del resto piuttosto banale: perché è più facile tifare per chi vince e per chi è potente. Soprattutto in uno sport come il calcio, dove spesso il pallone funge da rivalsa per le altre difficoltà (e delusioni) della vita. Un po’ come quella pubblicità che dice: “Ti piace vincere facile?”.
Del resto, la Juve ha vinto tanto, dividendo l’Italia a metà: tra adulatori (tanti, visto che la moda di salire sul carro del vincitore è sempre in voga nell’italico stivale, anche in altri campi) e detrattori. I quali ultimi, negli anni, non hanno mai mancato di associare lo strapotere economico della Zebra a quello politico, capace di alterare lo svolgimento dei campionati (i famosi “aiutini”). Così, quando nel 2006 si scoprì che sotto il fumo c’era pure l’arrosto, furono in migliaia ad esultare per il concretizzarsi di una verità che mai prima s’era potuta accertare.
Tornando però a bomba nel ragionamento, io ho continuato fino a ieri ad essere della mia idea: il tifo per una squadra deve avere uno stretto legame con il territorio e con la comunità di appartenenza. Un esempio: ve l’immaginate se ai mondiali gli italiani facessero il tifo per il Brasile o per la Germania?
Però, visto che sono consapevole di essere in netta minoranza, sabato sera ho deciso di adeguarmi. E, visto che ormai non ci sono più barriere tra gli Stati del continente, c’è la Comunità Europea, c’è la moneta unica e c’è perfino il trattato di Shengen, ho deciso di tifare Barcellona. Alla faccia del territorio e della comunità di appartenenza.
Anche perché tifare Barcellona è facile. Anzi, è facilissimo. E’ la più forte squadra del mondo, nelle sue fila ci sono campioni di un altro pianeta e quando gioca dà uno spettacolo incommensurabile. Non solo col trio Suarez-Messi-Neymar, ma anche con tutti gli altri.
E allora: adelante, Barca, adelante. Vamos a ganar la copa de campeones. Vamos a matar. Juve, tiè!