Al povero consigliere anonimo che viene da Orte e che attracca in via Saffi alle 20.01 della sera, viene chiusa la porta in faccia: “Mi dispiace, la legge è legge. Lei non può votare”, ringhia l’agente della polizia provinciale. Lui rimbalza: “E’ lo stesso”, e riprende la strada verso casa, o verso un aperitivo rinforzato. Così, alla storia di queste prime elezioni provinciali secondo i precetti della riforma Delrio, passerà questo dato: l’ultimo a votare è stato Leonardo Michelini, sindaco di Viterbo e perciò una specie di padrone di casa. Ha messo la scheda nell’urna, è uscito per ultimo dalla sala Benedetti di palazzo Gentili, e si spera – almeno per le già abbastanza disastrate casse pubbliche – che abbia pure spento la luce.
In totale i votanti sono stati 629, su 719 consiglieri comunali e sindaci della Tuscia aventi diritto. All’appello ne sono mancati 90, non tutti ritardatari come l’ortano ignoto di cui sopra. Vanno considerati anche i disertori annunciati (per esempio quelli del Movimento Cinque Stelle, o i leghisti, che da tempo avevano detto che non si sarebbero presentati ai seggi) e tutti coloro che, magari approfittando del ponte del Primo maggio, hanno preferito dedicare il finesettimana ad una bella gita fuori porta.
Per il resto, semmai ce ne fosse stato bisogno, questo voto per il famoso ente “di secondo livello” ha visto come protagonisti loro e solo loro: i politici, gli esponenti dell’apparato, dirigenti-funzionari-militanti (ma parecchio militanti), che per tutte le operazioni di voto hanno presidiato largo Mario Fani, davanti al Palazzo. Divisi in crocchi, tutti presi dalle telefonate (“Ho appena recuperato il voto di quello di Vallerano: sta venendo giù a vota’”, annuncia con gaudio un civico), dai conteggi, da calcoli resi ancora più complicati dalla formula del voto ponderato. Che prevede – in stile perfidamente orwelliano – che certi voti siano più uguali degli altri. E cioè: i rappresentanti dei Comuni più grandi contano di più dei loro sfigatissimi colleghi del paesello. Alla faccia della lotta di classe, insomma.
Così qui è tutto un ponderare. Si dice che Mazzola vincerà 8-4, cioé prendendo otto consiglieri contro i quattro del centrodestra. Ma non basta: quanto di quegli otto andranno alla lista del Pd e quanti alla lista finto civica messa su proprio da Michelini su suggerimento di quell’importante ex ministro? Dicono: 6-2, grasso che cola 5-3. Un derby nel sottoderby, insomma, e qui c’è il consigliere regionale Panunzi e i suoi fidi canepinesi a pattugliare la zona. Parimenti, dall’altra parte: Bartolacci come perderà? Bene, con 3 consiglieri suoi e uno ceduto alla squadra dissidente del centrodestra imbastita da Battistoni Francesco (pure presente in loco, addirittura visto abbandonarsi ad intelligenza con lo storico nemico Giulio Marini)? Calcolatrici, algoritmi, sospetti e bilancini per pesarsi.
Alle cinque e un quarto arriva Piero Camilli, sindaco di Grotte di Castro e candidato nella lista di centrodestra che però non sostiene Bartolacci: nonostante abbia appena assistito al 4-0 che la sua Viterbese ha rifilato al Fondi, entra, vota e se ne va. Meglio non farsi contagiare.
Alle cinque e mezza però ci pensano loro, Mazzola e Bartolacci, a dare l’esempio che la politica più autoreferenziale può anche riservare slanci di “altissima” sincerità. Si mettono a chiacchierare, si danno pacche sulle spalle, acconsentono alla richiesta dei due cronisti (sfigati pure loro, che trascorrono parte della domenica qui nel circolo) di una foto insieme. Clic. Dietro il portone, la facciata, le stanze austere che da lunedì (lo scrutinio dalle 8.30) accoglierà uno di loro – vale a dire Mauro Mazzola – come nuovo presidente. E che per prima cosa dovrà capire come si comanda una Provincia azzoppata dalla legge e già, di fatto, cancellata dai pensieri dei cittadini.