Che è ‘sta cosa? Si chiama “fila” , ed è un rituale pagano che si verifica quando tanta gente deve entrare nello stesso posto. Tipo il sabato in un cesso della discoteca, o ad un concerto di Tiziano Ferro, o a un comizio di Italia Unica, insomma. Evento che accade più raramente, invece, in occasione di una partita della Viterbese. Tranne ieri, per la finale della prima fase playoff contro l’Olbia: la fila ai botteghini è talmente bella che si meriterebbe persino il cambio dell’ultima consonante (basterebbe cambiare quella “l” in “g”, per dire). Tutti in coda per accattarsi il biglietto, superare i varchi e le perquisizioni delle intransigenti forze dell’ordine (“Cos’ha nei pantaloni, un accendino?” “No, sono solo contento di vederla, agente“) e occupare la tribuna. Gli appelli dei tifosi hanno funzionato, persino quello – letto su Facebook e che riportiamo soltanto per dovere di cronaca – che ammoniva: “Chi non viene allo stadio è un filippo rossi”.
Dentro, potrebbe anche essere bolgia, se solo non ci fosse la tensione a roderti dentro, a farti accendere sigarette o sbucciare bruscolini. Il Borghetti d’ordinanza non aiuta, perché il caffè mi rende nervoso, e una finale playoff peggio ancora, signora mia. Il minuto di silenzio per il centenario della prima guerra mondiale dovrebbe essere un messaggio subliminale: vuoi vedere che dopo quella del 1918 anche questa di oggi la vinciamo ai tempi supplementari? Così è stato. Ma prima, che smaltita.
L’Olbia ha fatto un figurone. Sciapò, come diceva il francofono assaggiando un piatto senza sale. Quadrato, l’Olbia. Tosto. Con robetta di lusso come Molino (uno che ti fa girare le pale) e il centrocampista di lotta e di governo Steri, e l’aquesiano Brenci, che sente il profumo di derby e azzecca il partitone. Sulla panchina gallurese, poi, s’agita un quintaletto di nome Oberdan Biagioni: gesti plateali, battute da cabaret, ma la sua squadra finisce per sfiorare la perfezione, anche quando resta in dieci per l’espulsione di De Cicco, nome da pasta e infatti combina un mezzo pasticcio. Zonfrilli salva un paio di gol, un altro lo evita Pacciardi con un sacrificio umano (il suo), il resto lo mette la Viterbese. Che si conferma squadra senza gioco, incatenata alle invenzioni dei suoi talenti, con poca corsa e molta fede. Neglia ruba l’occhio, Saraniti strappa le madonne dalla bocca, e l’arbitro fa il monaco. E’ milanese, il signor Curti, ma forse non l’avevano avvertito che ad Expo c’è la Macchina di Santa Rosa.
Intervallo. Si fuma e si rifuma. La birra serve per idratarsi. Nessuno chiede i risultati delle partite della serie A, per una volta: sarà perché la serie A fa giocare tutte scartine, oggi, o sarà perché la serie A dei viterbesi è qui, o forse sarà perché ti amo. Due ragazzini si sfogano: “Devo studia’ matematica per domani, ché interroga”. C’è sempre l’ipotesi Pratogiardino, figlio mio, poi con la giustificazione ci arrangiamo. Passa Max Farris, reduce dai trionfi con la Primavera della Lazio. C’è Lillo Puccica, doppio ex, fregato dalla Flaminia e il prossimo anno alla guida della Pianese (in bocca al lupo, mister). Gagliarducci è in tiro come al solito. Il direttore sportivo del Grosseto, già alla Viterbese, Luci è elegantissimo: ma il Gran premio di Montecarlo si corre altrove.
Secondo tempo a rischio defibrillatore. L’Olbia si gioca il tutto per tutto: ha il volo prenotato, spostarlo non costa nulla, sempre che non si riaccenda quell’incendio al terminal C di Fiumicino. Ma si sa: sono i rischi della trasferta in continente. Il tempo passa, Gregori subisce e non prende decisioni – qualcuno lo paragona incautamente al ministro Alfano – ma alla fine avrà ragione lui: la pazienza, quasi l’atarassia, non è roba da filosofi greci, ma da allenatori de Monterotondo. Così, quando si arriva ai supplementari, il regio bollettino recita: il fronte tiene, ma i sardi hanno tentato d’infiltrarsi, e non si sa se la linea reggerà l’urto. In più la truppa accusa dolori sparsi, cioè crampi, e il dottor Zucchi e i suoi debbono darsi da fare per sciogliere i muscoli.
E invece no: passano due minuti e Saraniti, quel pennellone che fino ad allora aveva fatto da attaccapanni in mezzo al campo, tira fuori il cuniglio dal cilindro (citazione, e pure dotta): il suo rasoterra angolatissimo è uno squarcio nel cielo nero di questo maggio ‘mbriachello, e nel cuore di tutti quelli che il cuore non se l’erano già giocato al videopoker. Gol. Dentro. Sarebbe bastato il pareggio, ma fateveli voi altri 28 (ventotto) minuti con le paranoie e contro quest’Olbia degnissimo. Il bomber esulta sotto gli Antichi Valori, si commuove, sbrocca. E poi esce per un dolore lì, in mezzo alle gambe. Eroe nostro, pupo siciliano, meglio un giorno da Saraniti che cent’anni da mediano, minchia.
Poi è attesa fino al triplice (fischio, non intesa). Sono cori per Camilli Piero, saltellare in tribuna, considerazioni su chi arriverà domenica per la prima nella fase nazionale. Se si giocherà di sera, meglio rispolverare lo smoking. Il calcioscommesse, gli scenari foschi di una proprietà che potrebbe lasciare e andare altrove, sono tutti congelati. La tristezza non è oggi, è di un altro giorno. Il più lontano possibile. Ciaone.