Sei mesi e due allenatori dopo, eccolo qui, Attilio II da Monterotondo. Attilio Gregori, chiamato ancora una volta a svoltare la stagione della Viterbese. Un anno dopo la vittoria del campionato di Eccellenza, e al netto dell’esonero del 5 ottobre scorso – sei mesi fa, appunto: vittoria col Selargius di Zemanino per 4-2 – dopo il mancato decollo in quella serie D che lui stesso aveva conquistato. Corsi e ricorsi, in questo venerdì santo che i Camilli hanno deciso di santificare sacrificando – non sulla croce, ma sulla panchina – Maurizio Ianni all’indomani della sconfitta casalinga contro l’Ostiamare (2-0). Chi chiamare, allora, per riattivare i circuiti di una squadra scoglionata? A chi affidare l’incarico di arrivare ai playoff in crescendo? Non gli Acchiappafantasmi, ma proprio lui, Attilione scortato dal fedelissimo Enzo Orlandi: non una minestra riscaldata, ma l’unica soluzione possibile a questo punto della storia.
“Siamo a Pasqua e mi chiedete se farò risorgere la Viterbese? – dice lui – Resurrezione è una parola troppo grande, e io da solo non posso fare nulla, serve una risposta di squadra, una squadra che ha qualità indiscutibili nei singoli, alcune espresse poco o male e bisogna anche capire il perché. Dobbiamo farlo in fretta, io e il mio staff, perché le cinque partite finali sono importanti, per non parlare dei playoff”. Il resto del discorso strettamente tecnico è la solita solfa dell’allenatore-che-si-presenta: motivazioni, i moduli che non contano ma contano gli atteggiamenti, l’equilibrio che va trovato il prima possibile. E una verità che brucia un po’ a tutti, da queste parti: “Quelli là davanti /(la Lupa, ndr) hanno corso un po’ troppo”.
Già, la capolista non si prende più, però ci sono i playoff, mica la coppa del nonno “ma una concreta opportunità per tornare tra i professionisti, con tutto quello che sta succedendo nel mondo del calcio”, dice Gregori. E ogni riferimento al Parma e ai casi del genere non è puramente casuale.
Obiettivo: arrivare come migliore seconda tra i nove gironi, insomma, ma prima bisogna vincere. E c’è una parola – un’immagine, un giochino retorico – che il sor Attilio utilizza in abbondanza: figurine. “Con le figurine non si vincono i campionati”, “Le figurine importanti, specie davanti dove abbiamo sette elementi, dovranno accettare la panchina perché io con sette pedine offensive insieme non ci gioco”, “Non giochiamo a figurine, quello lo facevamo da bambini”, “Certi giocatori, certe figurine, si pensavano di trovare un ambiente diverso: ma a Viterbo c’è pressione, si vuole vincere”. Cose così, insomma.
La chiusura è metafisica, e rimanda al congedo del 5 ottobre scorso, quando anche il pacioccone Attilio sbroccò prima di essere esonerato (“Non vi siete divertiti? Io mi diverto quando vinco”). E’ l’eterna questione breriana, sulla vittoria come fine che giustifica i mezzi e lo spettacolo che è solo fuffa di contorno: “Non faccio lo splendido – dice Gregori – Quando perdo sto male: fumo due pacchetti invece di uno, prendo troppi caffè, a casa litigo con tutti… Non voglio vincere 8-0 o 9-0. Firmerei subito per tutte vittorie bruttissime per 1-0, anzi mi farei frustare per questo”. Visto il giorno di passione, ci può stare. Ma dopo lo scudiscio, tre giorni di pausa pasquale, per Gregori e per i giocatori, che cantano sotto la doccia. Tutti contenti del ritorno, tranne qualcuno. Ma ora gli alibi sono finiti, e gli agnelli dovranno trasformarsi in lupi.