Com’è che si dice? I conti si fanno alla fine. Stavolta però quelli del Tuscia in jazz non hanno indetto nessuna conferenza a riguardo. E magari c’è pure da capirli. Anche perché, forse, è inutile scomodare mezza stampa locale, assicurarsi una sede dignitosa, elencare nel dettaglio spese ed incassi, per poi vedere che nessun altro (nessuno) segue il buon esempio. I soliti vaghi.
Basterebbe chiamare il direttore Italo Leali, però. Ché lui risponde sempre e, come diceva quello, una telefonata allunga la vita.
Bene. La sessione spring di uno dei festival jazz più rinomati d’Italia si è chiusa lo scorso lunedì. Lo staff martedì ha riconsegnato le chiavi a chi di dovere (dopo un’accurata pulizia), ed ecco le cifre. Un minimo margine d’errore ci può stare, sia chiaro.
Partiamo dall’ospitalità. In cinque notti hanno soggiornato all’ombra della Palanzana addirittura 1500 persone. Cifra da capogiro. Apparentemente incredibile, ma solo per il fatto che la manifestazione si ramifica in modalità silenziosa. In sostanza, non è invasiva. Intorno, la vita dei comuni mortali scorre allo stesso modo di sempre, senza rotture e senza sensi invertiti improvvisi o improvvisati.
Chi ha riempito alberghi e strutture ricettive varie? I seminaristi, in primis. Centotrenta ce ne stavano. Una decina del posto, gli altri provenienti da tutta Italia e da mezza Europa. Con loro qualche genitore, fratello o parente. Seguono i professori. Cioè gli insegnanti dei seminari. A ruota, gli spettatori.
A proposito, quantifichiamo questi ultimi. Cinquemila (testa più, testa meno). Poiché degli spettacoli godono, logico, anche i ragazzi di cui sopra. Quindi dare un numero netto è impossibile. Di buono però c’è che almeno l’80% dei fruitori si è affacciato al capoluogo da fuori provincia. Insomma, si è fatto turismo. Parola onnipresente sulla bocca di lorsignori organizzatori o politicanti (in toto), e quasi mai verificata o realmente ottenuta a posteriori.
Da quanto detto si evince comunque che ogni singolo concerto ha avuto di media 250 spettatori. Certo, Bosso avrà tirato più di altri. Così come magari Giuliani. Ma poco importa.
“Siamo soddisfatti – dice proprio il Leali non Fausto – come sempre si poteva fare di meglio, ma pure il tempo incerto ci ha un po’ fregati. Mettersi in macchina sapendo di andare incontro al diluvio o al gelo artico non è senza dubbio incoraggiante”.
Quando parla al plurale, il direttore, non è in preda a deliri di onnipotenza. Ma semplicemente rimarca il concetto di squadra. Insieme a lui, infatti, vanno rimarcate altre colonne portanti: Luca Ciccioni, Mirko Gerunzi, Enrico Mianulli, e via discorrendo.
Gemma di chiusura. Quanto costa il Tuscia in jazz? Trentacinquemila euro circa. Dieci ne mette il Comune (metterà…), qualche sponsor aiuta, poi ci stanno la quota dei corsisti e i biglietti effettivi strappati.
Ora, le carte sono in tavola. Ciascuno tragga le proprie considerazioni.