Gattuso non ringhia più. A 37 anni, appese le fatidiche scarpette bullonate al chiodo e con una carriera di allenatore appena cominciata, Gennaro Ivan da Corigliano Calabro è un altro. Dimenticate il giocatore che correva a perdifiato per 90 e passa minuti per sé e per gli altri (vero Pirlo e Seedorf?); scordatevi il mediano che mordeva le caviglie altrui, tamponava, ripartiva e dava la carica a tutti: a Viterbo per ricevere l’Etrusco (il premio che la sezione provinciale dell’Associazione italiana allenatori, guidata da Otello Settimi, consegna da 32 anni a chi si è particolarmente distinto sulle panchine del calcio che conta) c’è un uomo maturo. La parlantina è sempre sciolta e diretta (non la manda mai a dire), vivace nelle espressioni, ma il tono è pacato che di più non si potrebbe.
Stimolato dal giornalista Rai Massimiliano Mascolo, nel salone di Villa Sofia Ringhio fa un excursus a raggio larghissimo. Si comincia dalla sua recente attività di tecnico con esperienze non proprio esaltanti a Sion (Svizzera), a Palermo e Creta (serie A greca). “A 23- 24 anni – attacca Gattuso – cominciai a prendere appunti su quello che dicevano i vari allenatori che mi guidavano. Mi sarebbe piaciuto lavorare con i giovani, ma ho capito subito che non fa per me: non per i ragazzi, ma per i genitori. Invadenti, convinti di avere il campione in casa… Non sanno, o fanno finta di non sapere, che pochissimi ce la fanno e che per arrivare in alto servono tantissimi sacrifici. Io, a 18 -19 anni, la discoteca me la sognavo: alle 8 e mezza ero a letto perché il giorno dopo c’era la partita”. Le differenze tra giocatore e allenatore? “Due mestieri totalmente diversi. A Sion non ho imparato nulla: ragionavo ancora con le scarpette ai piedi e la maglietta sudata. A Palermo ho conosciuto Zamparini e il suo contrario”. In che senso? “Fino al venerdì una persona splendida, poi si trasformava. Pretendeva di fare la formazione, interferiva con le mie decisioni, parlava direttamente con i giocatori… Non può funzionare così”. Restano i mesi di Creta… “Ecco, lì sono cresciuto davvero. Da settembre fino a qualche mese fa ho fatto di tutto. Ho pagato di tasca mia perché la società non esisteva più. Ci siamo presi la soddisfazione di andare a battere il Panathinaikos in casa sua. Giocavamo anche un buon calcio, ma i problemi esterni erano ormai insormontabili. Pur lavorando 14-15 ore al giorno con tutto il mio staff, quando ho capito che ogni sforzo sarebbe stato vano, ho deciso di mollare”.
Che cosa resta di quelle esperienze all’estero? “Il calcio italiano invece di scimmiottare modelli stranieri, a partire dal Barcellona, dovrebbe tornare alle origini. Cioè scuola di portieri, di grandi difensori… Non abbiamo nulla da imparare da nessuno soprattutto sul piano tattico, però dobbiamo cambiare verso. Come tifosi, come dirigenti, come allenatori, come stadi. Quando ti chiamano per allenare, la prima cosa che ti chiedono è: ma lei come gioca? Mai che si cominci a parlare di giocatori da acquistare, di un programma. Lo schema deriva dagli uomini che si hanno a disposizione. Io, per esempio, non ho mai giocato con la difesa a 3, ma in Grecia l’ho fatto perché coprivo meglio la fase difensiva. Mi sono documentato, ho studiato, mi sono fatto consigliare da tecnici più esperti e più bravi di me. Il lavoro paga sempre. Per me l’allenamento e l’applicazione e il sacrificio quotidiano erano e sono la base per fare bene nelle gare ufficiali”. A proposito, ma mister Gattuso come preferisce giocare? “Da giocatore ero un difensivista, da tecnico voglio un calcio molto più offensivo: 4-3-3 o 4-3-1-2. Vedete come si cambia? E poi non esiste un modello standard: ognuno deve costruirsi la sua identità. Ho avuto tanti ottimi tecnici, magari da ognuno ho inconsciamente preso qualcosa, ma preferisco essere e restare Gattuso. Con qualche pregio e con i miei difetti e sapendo che ho ancora tanto da imparare. Non basta essere stati grandi giocatori per essere un buon allenatore”.
C’è lo spazio anche per una disavventura personale: dalle accuse di essere coinvolto nel calcioscommesse è uscito completamente prosciolto, ma qualche piccola ferita rimane. “Ero a Napoli per seguire gli allenamenti di Benitez. Mi sveglio e trovo sul cellulare decine di chiamate. Mi preoccupo: penso a qualcosa di grave successa in famiglia o ai miei figli… Vado in stazione per prendere il treno e tornare a casa e tutti mi guardano come un mostro… Non ho mai scommesso su una partita di calcio e non sono mai stato avvicinato per combinare un match. Dopo 4 mesi sono stato totalmente prosciolto, ma sui giornali e in tv la notizia della mia uscita dall’indagine non ha avuto lo stesso spazio e la stessa enfasi iniziale. Pazienza, non ce l’ho con nessuno. Ringrazio la mia famiglia e i miei amici che in quei momenti mi furono vicini e mi aiutarono a superare un momento davvero difficile”.
Sul filo dei sentimenti, è il caso di tornare a Berlino 2006… “Non ho un ricordo particolare di quella che pure fu una partita storica che tutti quelli che fanno questo mestiere vorrebbero giocare e vincere. Un’immagine però mi è rimasta impressa: prima della gara, in albergo, prendevamo il caffè tutti insieme. Si sentiva solo il rumore dei cucchiaini nelle tazze, non volava una mosca. Anche Totti, Buffon e De Rossi ai quali non mancava mai la battuta, erano muti. Io ero sempre pessimista: e se perdiamo? Così, quasi per mettere le mani avanti… Poi in campo, quando l’arbitro fischia, passa tutto e si pensa a dare il massimo. Come sempre”. Che tipo era Marcello Lippi? “Il suo segreto fu il gruppo. Lui sceglieva i giocatori in modo da non avere problemi dopo. E così piano pano costruì una squadra vincente. Anche se giocavi male, lui ti convocava e ti metteva in campo ugualmente perché sapeva di poter contare su quel giocatore. Una volta in conferenza stampa, parlai praticamente solo del Milan. Mi chiamò nella sua stanza e mi fece una scenata incredibile: a casa mia si parla solo dell’Italia, sentenziò. E’ una lezione che ho imparato e che non dimentico mai”. E Carletto Ancelotti? “Lui è uno che lascia fare. Tante volte non ero d’accordo sul fatto che lasciava correre, che faceva finta di non vedere o di non sentire. Un modo completamente diverso di dialogare con la squadra, ma ugualmente vincente”. Allegri? “Uno che non si piange mai addosso, coerente e capace di sorridere: i suoi allenamenti sono sempre piacevoli”.
E’ il momento di ricordare l’esperienza in Scozia. “Io giocavo nel Perugia, avevo 19 anni con qualche presenza in serie A. Gli osservatori del Glasgow Rangers mi vennero a vedere e mi fecero la seguente proposta: 2 miliardi e mezzo per 4 anni di contratto. Io guadagnavo 2 milioni al mese come rimborso spese. Ero titubante, ne parlai in famiglia. Mio padre fu lapidario: prepara la valigia e parti, altrimenti ti porto io in Scozia a calci nel culo. Ho avuto la possibilità di giocare con straordinari campioni inglesi e italiani, poi un tecnico importante come Dick Advocaat mi voleva far giocare terzino destro. Non accettai quella scelta e decisi di tornare in Italia alla Salernitana. Lì ho imparato un’altra cosa importante: con i giocatori bisogna parlarci singolarmente, usando toni e argomenti differenti a seconda di chi si ha davanti”.
Una vita nel Milan, Ringhio… “Grandissima società e grandissimi campioni. Dispiace vederlo in queste condizioni oggi… Ma se non si sa chi comanda davvero tra il presidente Berlusconi, la figlia Barbara e il dottor Galliani, allora è difficile fare calcio. Consigli per Inzaghi? Per carità, non ne ha bisogno. Dico solo che il Milan dovrebbe capire che deve giocare come una provinciale perché non è più una grande e poi le migliori prestazioni sono arrivate quando aspetta e riparte. Non ha i giocatori per costruire da dietro”. Insomma, una sano contropiede italico. E Pirlo? “Straordinario. Perché pensa con almeno 30 secondi di anticipo rispetto agli altri. La differenza tra un campione e un buon giocatore non la fanno i piedi: la fa la testa”. Il compagno di squadra che ammira di più? “Non ho dubbi: Paolo Maldini. In allenamento dava sempre il massimo, il capitano che tutti vorrebbero avere per l’esempio che dà. Parlava poco ma quando lo faceva spaccava i muri ed era impossibile non ascoltarlo”. E il giocatore che lo ha deluso? Un nome: Paul Gascoigne. Talento straordinario che si è buttato via. In Scozia, prima della partita si faceva un paio di bottigliette di whisky… E poi in campo gli faceva male il fegato”. Balotelli è sulla buona strada… “Non lo so. Certo che quando di te si parla più per quello che fai fuori dal campo… Se ne accorgerà con il passare del tempo, perché la nostra carriera è breve”.
Che pensa di Gaucci? “L’ho avuto come presidente a Perugia. Troppe intromissioni, delegittimava l’allenatore. Non è quello il compito del presidente”. Ma lei l’allenerebbe la Viterbese? “Con Camilli? Mi sa che ho già dato”. E di Viviani da Grotte di Castro che pensa? “Deve crescere”. Ma perché i giovani non giocano in serie A? “Perché si preferiscono gli stranieri, arrivati non per scelta tecnica ma come frutto di strani accordi tra presidenti e procuratori. Quando si ha la possibilità di giocare con grandi giocatori, alla fine qualcosa si impara sempre, ma di campioni in Italia ne arrivano sempre meno”. “A Corigliano Calabro – aggiunge – la mia fondazione ha una scuola calcio con circa 150 giovani atleti. Giocano a pallone per almeno 3-4 ore al giorno. Si allenano, poi fanno i compiti e studiano sempre al campo, poi tornano ad allenarsi. Così si fa in grandi società come l’Ajax”.
La conclusione è un messaggio forte: “Il mio lavoro è stato un gioco. Che si può chiedere di più? Ho guadagnato molto, ma dico sinceramente che lo avrei anche se mi avessero pagato dieci volte di meno. Che devo dire? Che sono stati coglioni a darmi tanti soldi”. Buona fortuna, Ivan Gennaro Gattuso: dentro sei rimasto sempre Ringhio.