Vietarle o non vietarle? Prima che la strage di Milano sconvolgesse il mondo della giustizia, impazzava il dibattito sulle intercettazioni. Ad occhio, per la trecentisima volta negli ultimi anni. Ma al netto della scarsità di argomenti, la questione andrebbe affrontata una volta per tutte, e seriamente. Con una premessa sacrosanta: le intercettazioni sono fondamentali per qualsiasi tipo d’indagine, e chi non lo ammette o non è sereno o ha qualche scheletro nell’armadio.
Tutt’altro discorso bisogna fare sulla loro pubblicazione, e qui sta il problema. Perché troppe volte abbiamo letto lenzuolate sul nulla. Pagine dove non solo non c’era traccia di reati, ma neanche di notizie giornalistiche. Pettegolezzi. Chiacchiere. Parole innocue. Semplicemente, fuffa.
Dice il cronista furbo: “Le pubblichiamo perché servono per far capire il contesto, il quadro generale”. Balle, enormi. Chi se ne frega del contesto, della cornice. Interessa davvero al lettore (il lettore serio, s’intende, mica il guardone)? Certo che no. Non sarebbe meglio riempire quelle pagine con le notizie? Le inchieste? Le interviste? Gli approfondimenti? Si potrebbe fare, se solo si volesse lavorare, alzare il sedere dalla poltrona, uscire dalla redazione e andare a battere la strada in cerca di scoop, come si faceva una volta.
Invece – è triste dirlo – spesso le intercettazioni servono anche come riempitivo. Col risultato che ormai, dopo aver letto diecimila batutte su questa o quella inchiesta si finisce per dire: “E allora?”. E’ il caso dell’inchiesta su Ischia, che ha coinvolto una cooperativa: tralasciando l’aspetto giuridico (la giustizia farà il suo corso, fino alla sentenza, o magari all’archiviazione), perché tirare in ballo chi era soltanto citato nei verbali senza essere indagato? Soltanto per screditarlo. Per rovinarne l’immagine, in alcuni casi anche la vita.
Una politica seria dovrebbe regolare la pubblicazione del materiale: quello davvero attinente ai reati ipotizzati può essere pubblicato, il resto no. E basta. Con pene, per i trasgressori, davvero certe, e non multarelle che gli editori pagherebbero senza difficoltà. E anche l’ordine dei giornalisti dovrebbe vigilare e sanzionare con una certa severità.
Nell’attesa (che sarà lunga e forse vana, è l’impressione) che la faccenda venga risolta, il cattivo pensiero viene naturale: pubblicare indiscriminatamente le intercettazioni fa comodo a troppe persone, oggi in Italia. Ai politici, per infangare l’avversario di turno (salvo poi finire vittime dello stesso metodo). Ad alcuni – alcuni, non tutti – pubblici ministeri che trovano gratificazione e credito dai mass media. Ai giornalisti stessi, infine, che mestano nel torbido e si risparmiano buona parte del lavoro. Tutti contenti, intercettati e soprattutto pubblicati.