Canapa sativa. Se ne è parlato venerdì sera alla Camera di commercio. In una convegno fiume infiocchettato ad arte dal Comitato per la promozione dell’imprenditoria femminile.
Ora, giacché (paradosso) in molti ci sono cascati, la premessa è d’obbligo. La canapa sativa non si fuma. Non sballa. Non è quella che si va cercando ad Amsterdam (con la scusa di esser partiti sulle tracce di Van Gogh). È legale piantarla e lavorarla. Insomma, rispetto alla “indica” è proprio un’altra pianta. Per buona pace di consumatori abituali e spacciatori.
Detto ciò, e tralasciando la passerella politica da brividi, su tutti ricordiamo le sconcertanti dichiarazioni del sindaco Leo Michelini: “Ho una camicia di canapa, ma non so dove l’ha messa mia moglie”, andiamo ad approfondire un tema sempre più caldo e, come dire, finalmente intelligente.
Il primo a dare un senso all’incontro è stato tale Marco Mai. Presentato come “Mei”, forse per dare un taglio americano alla faccenda.
Il Mai era un informatico, ad oggi convertito alla green economy, oratore per la sponda laziale di Assocanapa. Organo supremo, nello Stivale, per la diffusione e l’utilizzo consapevole (in senso strettamente culturale) dell’arbusto esile ma duttile. “Il mio intervento verte sul pratico – questa la sua premessa – l’Italia ha dimenticato gli utilizzi della canapa. Eppure la si coltivava ovunque. Il nostro scopo, dopo un oblio lungo 50 anni, è quello di riportarla all’antico splendore. Occuparsene vuol dire in primis salvaguardare l’ambiente e le condizioni di vita dell’uomo”.
Già. Poiché non solo il vegetale è utile, che ci si fa qualsiasi cosa, ma lo stesso serve per mantenere il territorio vivo, sano, addirittura migliore rispetto a prima della semina. E l’esperienza del Mai su Cerveteri è più che soddisfacente. Nella cittadina romana la si trova in diverse attività, ha fatto crescere l’occupazione, ha educato molte teste, rappresenta una vera eccellenza. “E il Lazio – chiude – che ad oggi per ettari coltivati sta all’ultimo posto, pare si stia convertendo. L’argomento è effervescente”.
Altra testimonianza significativa, quella di Rachele Invernizzi. Anch’essa Assocanapa, ma Puglia, e poi delegata del centro di trasformazione sito a Taranto (piuttosto, ce ne stanno due soli in Italia, e questo è un problema). “Io mi concentro sulla parte agricola – parola di Invernizzi – i processi sono simili a quelli del grano. La canapa però è più delicata, viene alta quasi quattro metri e presenta alcune difficoltà nei processi produttivi. Insomma, se si decide di diventare canapicoltori la strada è in salita, ma non impossibile. Meglio comunque procedere con calma, prima individuiamo le zone adatte. Poi si crescerà coi giusti tempi”.
In tutto ciò, cosa si può produrre con la sativa? Calce e mattoni (quindi bio edilizia). Parti di automobili. Cosmesi. Alimentare (settore in piena crescita). Lettiere per animali. Imbottiture per sedie e divani. Olio. Tessuti.
Chiudendo. La rivoluzione si può fare (diceva quello). Le basi ci sono tutte (a Viterbo era utilizzata già nel 1200, d’altronde). Basta crederci. E basta portare avanti un operato condiviso.