Postulato alla prima legge dei Rokes (“Bisogna saper perdere”): “Non sempre si può vincere”. Ma non sarà certo una canzoncina degli anni Sessanta a risollevare gli animi frustrati degli sportivi viterbesi. Che mentre aspettano questa primavera meteorologica debbono sopportare anche una crisi che affligge le due squadre più importanti della città, quelle che fanno maggior pubblico, quelle sulle quali ad inizio stagione si era puntato forte, anche alla luce dei trionfi festeggiati l’anno scorso. Oggi, dieci mesi dopo il maggio radioso della Viterbese (promossa in serie D vincendo il campionato di Eccellenza) e l’incredibile giugno della Ilco Stella Azzurra (salita in serie B per la prima volta nella sua storia dopo palpitanti playoff), la situazione è deludente. E suscita una serie di riflessioni su ciò che Viterbo è nel panorama sportivo nazionale, su ciò che vorrebbe essere, sui meriti e sulle responsabilità.
Calcio e basket, dunque, le due discipline d’elezione della città dei papi, tra alterne fortune, gloria effimera, fallimenti memorabili. Adesso invece pare che si stia vivendo una fase perenne di tentato decollo, frustrante perché non si capisce se si è destinati a volare o a tornare sulla terra.
Per quanto riguarda la Viterbese, ad 11 punti di distacco dalla vetta, la questione è semplice: ha trovato un’avversaria forte, la Lupa Castelli, e sicuramente più fortunata. Qualche episodio e la durezza intrinseca del girone ha fatto il resto. Morale della favola: per tornare tra i professionisti non resta che avviarsi lungo la strada tortuosa e incerta dei playoff, arrivare il più lontano possibile e poi sperare che tra i corridoi del Palazzo qualcuno si ricordi dei gialloblu al momento dei ripescaggi.
La Ilco Stella Azzurra invece non aveva mai avanzato proclami di vittoria, ed era il minimo, per una matricola che si trovava ad affrontare un girone duro, con squadre dal budget elevatissimo e piazze calorose. L’avvio promettente, e la possibilità di centrare un risultato di prestigio, è sfumato sconfitta dopo sconfitta. Oggi la retrocessione sembra comunque un’ipotesi remota (Cagliari dovrebbe vincere tre delle ultime quattro partite, i blustellati perderle tutte: retrocede soltanto l’ultima in classifica), ma certo si poteva fare di più.
Dice: perché lo sport viterbese di vertice non fiorisce in modo definitivo? Perché non si può tornare ai fasti di un tempo, quando il calcio lottava per la serie B, il basket per la A, e quello femminile addirittura era ai vertici europei? Bella domanda. Di certo, col passare degli anni, la comunità ha fatto pochissimo per sostenere le realtà d’eccellenza. Le amministrazioni comunali (di qualsiasi colore: qui la politica non c’entra, o forse sì) hanno lasciato in stato di abbandono gli impianti. I problemi della Stella Azzurra col PalaMalè, l’unico palazzetto dello sport al mondo in cui piove(va) e fa freddo, ne sono il vergognoso epilogo. Idem per lo stadio Rocchi, rifatto appena otto anni fa eppure devastato da gestioni fallimentari, col campo di gioco imbarazzante (là dove c’era l’erba), i muri di cinta che cascano, e altre simpatiche caratteristiche tecniche. Delle quali il patron Piero Camilli – abituato ad altri stadi e ad altri interlocutori istituzionali – si lamenta a ragione da quando si è imbarcato nell’impresa viterbese.
Gli impianti, dunque. Ma c’è anche un’altra faccenda che varrebbe la pena approfondire. E sta tutta nella dimensione provinciale dello sport. Quella provincia che può essere una grande risorsa, ma anche un limite. Un limite mentale, laddove Viterbo venga considerata una “grande piazza” (vade retro) e dunque faccia sentire giocatori e tecnici provenienti da fuori come già arrivati. Vale per i ragazzini del basket, arruolati in estate con le migliori intenzioni ma senza che siano esplosi, e vale per i professionisti di fatto (specie a livello di stipendio) ingaggiati dalla Viterbese. La provincia, nel nostro caso, non si limita a proteggere dalle pressioni i protagonisti sul campo, ma li avvolge in un ambiente ovattato, troppo ovattato, spesso facendo loro mancare gli stimoli. Quegli stimoli che spesso possono fare la differenza, specie in campionati serrati. Ma il limite è anche più concreto, quando si parla di un territorio con poche industrie e con un’economia più portata alla conservazione che allo sviluppo. Le aziende che mettono soldi nello sport erano già poche prima, guidate spesso da mecenati illuminati, mentre oggi, dopo la crisi, chi decide di investire in una squadra semplicemente non esiste più.
Questi siamo. E per tornare a festeggiare qualcosa di grosso – che sia il ritorno della Viterbese tra i professionisti o un campionato da protagonista per la Stella – forse ci vorrà più del previsto. Bisognerà pure saper perdere, ma quando si (ri)vince?