E’ difficile ricordare Nello senza rischiare di cadere nella retorica. Perché lui è stato un Grande. Un uomo che ha fatto la storia di Santa Rosa e della sua Macchina per oltre mezzo secolo. Perché è stato l’autore di una rivoluzione copernicana che ha dato ai Facchini l’orgoglio di esserlo. Di essere protagonisti dell’evento che simboleggia la Viterbo della tradizione millenaria, quella legata alla sua santa patrona.
Sì, Nello Celestini è stato un gigante in mezzo a tanti nani, capace di portare avanti i veri valori della viterbesità senza lasciarsi mai condizionare da fattori di altra natura, a cominciare da quelli politici.
SANTA ROSA E LA POLITICA
Perché Nello era comunista. E lo era anche nel 1946 quando – appena finita la guerra – a soli 21 anni, il suo compare Amedeo Ragonesi era andato a trovarlo e, davanti a sua madre Rosa (guarda un po’) e a suo padre Lorenzo, gli chiese di continuare la tradizione di suo nonno “Scatolino” e di diventare Facchino.
“Ma Nello, sei sicuro di voler portare la Macchina? Proprio tu, con le tue idee. Pensaci, figlio mio” gli sussurrò la madre con amorevole affetto. Ma lui strinse le spalle e rispose: “Sì, sono sicuro”.
Il giorno dopo andò per fare la misurazione e incontrò un amico, Gigetto Selvi, che gli si accodò e fecero entrambi la famosa misurazione d’altezza. “Allora non c’era la prova di portata – è il racconto di Nello in una intervista di qualche anno fa – ma ci si metteva sotto una staggia e su una palanca e si vedeva quale posizione si poteva prendere sotto la base. Erano capi facchino Selvaggini e Calevi che mi misurarono e poi parlai, dopo la presentazione del compare, con il cavaliere Virgilio Papini che stava seduto da una parte a guardare le misurazioni. Quando il cavaliere seppe che ero nipote di “Scatolino” mi mostrò un vecchissimo fiasco, tutto sbreccato, dicendo che da lì aveva bevuto mio nonno durante i trasporti e loro tenevano ancora per ricordo quella bottiglia”.
Ma per quell’anno Nello il trasporto lo dovette guardare da fuori, in un certo senso. Era infatti troppo alto e non entrava sotto la stanga. Ma Papini non si sentiva di rinunciare a quel giovane che prometteva tanto bene e gli chiese di portare il cavalletto “che tutti gli anni l’arrotano per terra: con te di certo non succederà. Che ne dici?”. “Papini –aveva raccontato ancora Nello – aveva un carisma che non ho trovato più in nessun costruttore. O forse ero molto giovane e ho subìto il suo fascino: era ormai un uomo molto anziano, con la barbetta bianca e un modo di fare affettuoso. Ci dava sempre uno schiaffetto seguito da tre confetti. La sera del 3 vestiva il frac e, con la sua barbetta bianca puntata verso, l’alto guidava la Macchina con perizia e sicurezza”.
Da quel 1946 fino al 1998 Nello e Santa Rosa sono stati un tutt’uno. Giacché “Spolverone” (questo fu il nomignolo che ben presto si guadagnò, grazie al suo carattere tutt’altro che arrendevole) è stato protagonista indiscutibile di tutto quello che ha riguardato la Macchina di Santa Rosa. Di cui val la pena ricordare almeno tre momenti topici: il dramma del “Volo d’Angeli” di Zucchi col suo “fermo” del 1967 e tutte le sue conseguenze; la nascita, per sua ferma volontà, del Sodalizio dei Facchini di Santa Rosa; l’ideazione e la realizzazione, grazie al fortunato incontro in un’osteria di Canepina con lo scultore Alessio Paternesi, del monumento al Facchino ancora oggi posto nel mezzo di piazza della Repubblica.
IL FERMO DEL “VOLO D’ANGELI”
Cominciamo dal 1967 quando Zucchi vinse il concorso sbaragliando tutti gli avversari con una costruzione che aveva del magico: un Volo d’angeli che s’attorcigliava, slanciandosi verso il cielo e sostenendo la Santa patrona benedicente. Il traliccio in ferro era alto 28 metri e lo fornì la ditta Patara. La parte artistica venne affidata a una ditta di Viareggio, ma quando mancava un solo angelo al compimento dell’opera, tra Zucchi e gli artigiani toscani ci fu una lite e l’ultimo angelo lo costruì lo stesso Zucchi.
“Peppe – è ancora Nello a raccontare – è stato comunque un innovatore: eliminò le stanghette davanti; per il reclutamento s’inventò la prova di portata con la cassetta da 150 chili su un percorso virtuale preparato all’interno delle Scuole Rosse; i Facchini venivano misurati uno per uno scrupolosamente per trovare il loro giusto posto sotto la Macchina. Personalmente ho imparato molto da lui. Proprio nel ’67, dopo aver fatto la prova come stanghetta, mi operai di ernia e quindi non potevo portare la macchina. Ma Peppe mi volle comunque nel trasporto e con suo fratello Balilla facemmo da guida. Fu un trasporto sfortunato, come è rimasto nella storia della Macchina”.
“Ma se Zucchi fu un innovatore con l’introduzione della prova di portata – è di nuovo Nello che parla – chi effettuò la scelta dei Facchini fu invece un superficiale: nella formazione ci entrarono più “impiegati” che gente capace di sopportare la fatica di un percorso lungo un chilometro. Appena uscita si vide subito che la Macchina non andava bene. A piazza Fontana Grande parecchi uomini se n’erano già andati perché soffrivano molto e si erano fatti male. Fu un parapiglia e parecchi volontari s’infilarono sotto la Macchina per dare una mano. Anch’io, con Pietro Giustini, cercai di aiutare, ma non c’era niente da fare. Qualcuno gridò aiuto, qualcun altro “fermiamoci”, ma Zucchi rispose con un no secco e si continuò. A piazza Fontana Grande ci fermammo per mezz’ora, cercando di ricomporre la formazione, ma non ci fu possibilità di scelta perché Peppe volle ripartire”.
Prosegue il racconto di Nello: “Si ripartì. La Macchina sbandava e andò di traverso. Un facchino di quelli tosti, Tobia, noto per sollevare quattro quintali senza batter ciglio, gridò: “Ferma che morimo tutti”. All’altezza del palazzo della Provincia, la Macchina si afflosciò su se stessa: tirai giù i cannocchiali con Giustini, poi poco per volta i cavalletti. Addirittura il prefetto voleva abbattere la Macchina per l’ordine pubblico, ritenendola un pericolo; ma i Facchini fecero una cintura tutt’intorno e la difesero, impedendone la distruzione. Poi ci fu una discussione violenta con Zucchi perché aveva la convinzione che i Facchini lo avessero abbandonato. Secondo me non si può dire così e, comunque, la formazione l’aveva fatta lui. E quindi: con chi se la doveva prendere? Andammo a finire a litigare, ma in quel periodo non era una cosa rara, tutt’altro. E Peppe, appena la situazione si fu un po’ normalizzata, cominciò a lavorare alle modifiche della Macchina. Che non fu alleggerita, come si disse, ma ristretta di 50-60 centimetri, con spallette aggiuntive e stanghette avanti e dietro: insomma, trenta uomini in più”.
Fu cambiato anche il sistema di reclutamento e durante una riunione al Pilastro si decise il capofacchino: Zucchi propose Nello e tutto il gruppo rispose compatto con un applauso. Il capofacchino sarebbe stato responsabile del ritiro, mentre la direzione del trasporto rimaneva appannaggio di Zucchi.
“Insieme – è ancora il racconto di Nello – avremmo fatto la formazione basandoci sulla prova di portata con la cassetta che fu effettuato nel giugno ’68. Seguì la prova del traliccio e un occasionale spettatore ci gridò “buffoni”, pensando di sicuro alla brutta esperienza del 3 settembre precedente. Poi ci furono le scuse. Intervenne addirittura Achille Poleggi per rimettere pace e infatti ci riappacificammo. L’anno dopo il fermo cambiammo circa la metà dei facchini e alle prove accorsero almeno duecento viterbesi in un rigurgito di amor proprio. Dal Consorzio Agrario (dove Nello lavorava, ndr) arrivò una carovana di operai e rimediammo una prima fila di veri e propri “bestioni”, tra cui il fantastico Pierini di Bagnaia. Fu il trasporto della rivincita: bello, liscio come l’olio con una Macchina ritoccata e finalmente pronta a mostrarsi in tutto il suo splendore”.
NASCE IL SODALIZIO
Intanto la tradizione dei Celestini e della Macchina di S. Rosa continua: a vent’anni, quindi agli inizi degli anni 70, Lorenzo – figlio di Nello – diventa Facchino dopo aver superato bene la prova di portata e diventa spalletta aggiuntiva, perché mancava proprio un uomo di quell’altezza. Non è che sua madre Lidia fosse proprio contenta di quella scelta. Ma anche nel suo caso, come in quello di Nello, non ci fu niente da fare: e la dinastia dei Celestini continuò.
Il nuovo evento topico si verifica però alla fine degli anni ’70, quando – sindaco Rosato Rosati – si dà il via al Sodalizio dei Facchini di Santa Rosa. Alla stesura dello statuto partecipano Rosario Scipio, Italo La Rosa e lo stesso Nello. I Facchini diventano una figura giuridica e , grazie allo statuto, il Sodalizio fa attività tutto l’anno: i Facchini non sono più solo i protagonisti della sera del tre settembre. S’inizia anche un’attività propagandistica con gemellaggi vari, come quelli con Assisi e Pisa, e partite di beneficenza. Nello racconta ancora: “Avevamo fatto anche un’altra cosa, più personale però, ma simpaticissima. Noi ex ragazzi di San Faustino ci eravamo organizzati per una cena tutti insieme. Eravamo tutti del ’25 o giù di lì e da bambini avevamo giocato nella piazza Sallupara, con sassaiole e roba del genere. Cappellani riuscì a portare anche Maurizio Costanzo che allora, nel ’78, era direttore della Domenica del Corriere. E Costanzo ebbe la sua brava tessera di gojo, anche se gli dovemmo spiegare cosa significava”.
Purtroppo però, ciò che era nato per nobili motivi, piano piano si trasforma con risvolti negativi. E’ lo stesso Nello, in quell’intervista di qualche anno fa, a ricordarlo: “Nel sodalizio purtroppo, entrò la politica. Così, nel ’98 mi ritirai. Avevo infatti presentato una proposta di modifica dello statuto che non venne accettata. Tra l’altro, alcuni Facchini mi presero da parte e mi invitarono a non ripresentarmi alle elezioni. Mi feci da parte e fui eletto comunque presidente emerito, potendo così partecipare alle riunioni senza avere diritto di voto. Ma io non ci andai più. Tanto la politica non mi interessava. Sono stato sollecitato tantissime volte a presentarmi alle elezioni comunali per fare il consigliere e non ho mai accettato. Ma adesso un po’ me ne pento, perché vedo che tutto si fa attraverso la politica”.
Poi la stoccata: “I consiglieri del Sodalizio fanno continuamente merende e cene perché vedono l’appartenenza al Sodalizio come una piattaforma da cui lanciarsi verso la politica. Ma non è una cosa che mi piace, perché sta snaturando quella che è la figura del Facchino”.
IL MONUMENTO AL FACCHINO
E’ indubbio che Nello Celestini i Facchini li abbia sempre avuti nel cuore. Quindi, a un certo punto della sua vita, cominciò a pensare come renderli eterni anche fisicamente: nacque così l’idea del monumento.
E’ una sera di festa a Canepina e Nello se ne sta nel cantinone con i suoi amici che lo hanno invitato per la festa di S. Cecilia: c’è il presidente della banda Franco Benedetti e c’è anche l’artista viterbese Alessio Paternesi. Tra un bicchiere e l’altro, si fa avanti l’idea di un monumento a questi uomini che danno tanto alla tradizione e a Viterbo. E’ un’idea affascinante e si sentono tutti molto coinvolti. Paternesi si butta: disegna il bozzetto e realizza un modellino in scala, che resta esposto per quindici giorni al ristorante la Zaffera.
Oltre all’approvazione del direttivo, l’idea ottenne anche tremila firme di gente entusiasta. Si mossero un po’ tutti per ottenere appoggi e fondi: dalla Regione, grazie all’interessamento di Luigi Daga, Franco Simeone e Michele Bonatesta arrivarono 300 milioni, stornati dai fondi dedicati alle mura di Alatri. Altri 300 milioni li raccolsero i Facchini, vendendo 5-6000 piccole Macchine a 20 mila lire l’una. Poi ci fu il contributo della Cassa di Risparmio.
Ma quando si trattò di posizionare il monumento sorsero diatribe e storie di vario genere: si pensò a piazza della Rocca, a piazzale Gramsci e a piazza del Teatro “dove sarebbe stato molto bene – aveva detto Nello – visto che quella è l’ultima sosta prima della corsa verso il Santuario della patrona. Alla fine lo sistemano a piazza della Repubblica ma con le spalle che danno verso la strada: la gente che passa vede solo schiene e non capisce bene di cosa si tratti. A me non è piaciuta questa soluzione, ma quello che voglio io non ha importanza, a quanto pare”.
UN ESEMPIO DA SEGUIRE
Un carattere burbero, un cuore grande, un animo intriso di alti valori: questo era Nello Celestini. Che a novant’anni ha deciso di lasciare la terra dove era nato per stare più vicino a Santa Rosa (nella chiesa si terranno i funerali, domattina alle 10), quella santa che ha segnato tutta la sua vita e per la quale la sua vita ha speso. Ora Viterbo ha due grandi responsabilità: quella di non dimenticarlo e l’altra, più importante, di seguirne l’esempio. Ammesso che ne sia capace.