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Ore 13.15, il silenzio per gli innocenti

Oggi Comune e Provincia ricordano il bombardamento di 71 anni fa

Un'immagine di un bombardamento su Viterbo

Un’immagine di un bombardamento su Viterbo

Quel giorno di Sant’Antonio di settantuno anni fa sembrava primavera. Uno di quei momenti in cui quasi si dimentica di essere in guerra, se solo non fosse per i cari partiti per la Russia, per i Balcani, per il deserto e non ancora tornati, se non fosse per il poco cibo, e per i tedeschi che fanno i padroni della città, della provincia, e tutto sommato di oltre metà della penisola.

Quando suonano le sirene dell’allarme nessuno scappa più. Perché i viterbesi hanno imparato da un pezzo a convivere con quel fischio: “La solita squadriglia di passaggio – pensano tutti – Magari va a colpire la ferrovia ad Orvieto, qualche ponte sul Tevere, se ancora ne è rimasto uno intero. O gira su Civitavecchia, o punta dritto sulla Toscana”. Viterbo no, non può mica essere bombardata: ci hanno provato a fine luglio, ma puntavano all’aeroporto, e poi è finita lì. Allarmi, sì, qualche caramella sganciata la notte, sulle campagne, forse da piloti troppo vigliacchi per scaricare sull’obiettivo designato sfidando la Flak, la leggendaria contraerei tedesca. E invece no.

E invece è l’una e un quarto e dal cielo viene giù fuoco e acciaio, lanciato da dozzine di B24, i Liberators americani, che volavano alti e colpiscono senza pietà. Infatti: l’obiettivo dovrebbe essere la stazione di Porta Fiorentina, una di quelle strade ferrate che collega Roma – ancora in mano ai tedeschi – col nord Italia, e dunque con la Germania, e con le fabbriche e i rifornimenti di uomini e mezzi e armi. Un obiettivo strategico, uno dei pochi ancora interi rimasti in un’Italia prostrata da quattro anni di conflitto e almeno gli ultimi due di bombardamenti a tappeto. Gli Alleati, intanto sono fermi a Cassino, e di qui a cinque giorni sbarcheranno ad Anzio, per un audace quanto fallimentare tentativo di rompere la linea gotica. Altro sangue su sangue.

La chiesa di San Francesco semidistrutta

La chiesa di San Francesco semidistrutta

Anche quelle di quel giorno non furono bombe intelligenti. Sbagliarono bersaglio, un errore che accrebbe in modo smisurato quelli che i generali chiamano “danni collaterali” e che invece sono vittime civili, morti a causa della guerra e non “in” guerra. Ce ne furono alcune centinaia, sotto le macerie delle case da piazza della Rocca a piazza del Teatro, dal Cunicchio a piazza della Vittoria a via Matteotti, quartieri popolari e popolosi, come ricorda Gianluca Di Prospero nel suo “Viterbo in guerra” (Intermedia edizioni) e come ha scritto Sandro Vismara, impareggiabile testimone dell’epoca. Morì il parroco della chiesa di San Francesco, schiacciato dalla volta che venne giù. Morirono i passeggeri che aspettavano il loro autobus al capolinea delle autolinee Garbini, in piazzale Gramsci. E tanti furono i feriti sotto le macerie, soccorsi dai vigili del fuoco e dalle persone comuni, trasportati all’Ospedale grande degli infermi, alcuni salvati, altri soltanto destinati all’agonia.

Oggi, alle 13.15, tornerà a suonare la sirena. Prima, alle 10.30, la messa del vescovo Fumagalli in San Francesco. Dentro la basilica ci sarà anche una mostra fotografica, “La Viterbo bombardata”, che resterà aperta fino al 25 gennaio. Alle 13 verrà scoperta una targa commemorativa all’inizio del ponte del Duomo, dove c’era uno dei rifugi antiaerei che diede riparo ai viterbesi e agli sfollati (tra cui molti provenienti proprio da Cassino, perché dalla guerra può scappare, ma non ti puoi nascondere). Ci saranno le autorità civili anche della Provincia, e si spera anche tante normali cittadini, magari pure studenti. Per non perdere la consuetudine – alimentata negli anni dal parroco di San Francesco, Agostino Mallucci – di ricordare le prime vittime innocenti di quando la guerra entrò in casa nostra.

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